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Proponiamo a tutti voi lettori  questa intervista/recensione del libro “Stelle, atomi e velieri. Percorsi di storia della scienza”  scritto dal prof. Lucio Russo fisico e storico della scienza. Attualmente è  docente universitario nella facoltà di Tor Vergata dove ha tenuto  corsi come “Calcolo della Probabilità”, “Istituzioni di Fisica Matematica”, “Storia delle Matematiche”  e “Storia della Scienza”.

In quest’ultimo ambito, per citare alcune delle sue opere più note, ha scritto:  “La rivoluzione dimenticata”, Flussi e riflussi: indagine sull’origine di una teoria scientifica”, Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”.  Nel 2016 ha pubblicato il libro “La bottega dello scienziato”.

Qui di seguito riportiamo l’interessantissima intervista al prof. Russo  sul suo testo edito da Mondadori nel 2015  (disponibile on line per esempio qui e qui ).


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– Nell’introduzione al suo libro indica, tra gli obiettivi del suo testo, quello di sfatare alcuni miti della storia della scienza. Può spiegare ai nostri lettori quali sono questi miti?

Ne individuo tre. Il primo consiste nell’idea diffusa che la scienza nasca essenzialmente nel XVII secolo, come se i suoi precedenti nella cultura antica fossero trascurabili. Poiché la scienza rinacque in epoca moderna dallo studio degli antichi trattati recuperati, ignorare il rapporto tra gli scienziati della prima età moderna e le loro fonti ellenistiche impedisce di cogliere l’origine delle idee degli scienziati moderni, che appaiono misteriose e immotivate. Il secondo mito attribuisce gli sviluppi della scienza a una disinteressata ricerca della “Verità”, recidendo il rapporto, che è stato quasi sempre essenziale, tra gli sviluppi teorici e l’esigenza di risolvere problemi di interesse pratico. Il terzo consiste nell’attribuire a pochi geni isolati quasi tutti i risultati scientifici, che il più delle volte sono invece dovuti a un complesso lavoro collettivo. Da alcuni decenni è spesso citata una legge (attribuita a vari autori) secondo la quale, quando una scoperta scientifica è citata con il nome di uno scienziato, l’unica cosa certa è che non si tratta del vero scopritore.

-Può spiegarci l’importanza che ebbe nel periodo ellenistico l’idea di fissare i postulati e al contempo l’idea di “sfrondamento semantico” dei termini originari come linea retta?

L’idea di fissare una volta per tutte i postulati di una teoria (idea che vediamo per la prima volta in Euclide) ebbe un’importanza essenziale per almeno due ragioni. La prima è che se si accettano come vere tutte le affermazioni che appaiono evidenti (nel caso della geometria l’evidenza è suggerita dai disegni) è praticamente impossibile non incorrere prima o poi in errore, ad esempio ritenendo vera un’affermazione che lo è solo in presenza di ipotesi verificate nei disegni esaminati, ma non assunte esplicitamente, né deducibili dalle assunzioni fatte. La validità, nel contesto che interessa, di un piccolo numero di postulati è invece verificata continuamente da tutti gli studiosi della disciplina.

Il secondo motivo mi sembra ancora più importante. Postulati come quelli di Euclide sono espressi in termini della lingua ordinaria: ad esempio il primo postulato potrebbe essere tradotto “è possibile tracciare una riga dritta da ogni segno a ogni segno”. Termini come “riga dritta” o “segno” appartengono al lessico usuale dei disegnatori e indicano oggetti concreti con molte proprietà: una “riga dritta” può essere incisa o dipinta, può avere diversi spessori e colori e così via. Se però si accettano come valide solo le proposizioni dedotte dai postulati i termini usati vengono necessariamente privati di tutti gli attributi che non svolgono alcun ruolo in alcuno dei postulati. Ad esempio, poiché in nessun postulato di Euclide si accenna allo spessore né al colore delle “righe dritte”, queste, nella teoria geometrica sono necessariamente prive di spessore, di colore e di altre proprietà delle righe tracciate in pratica. Nasce così il concetto teorico di “linea retta”.

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Schema del rapporto fra teorie scientifiche, fenomeni e tecnologia (Fonte L. Russo, “Stelle, Atomi e velieri”)

– Nel primo capitolo si trova una interessantissima descrizione del metodo scientifico che spiega l’esistenza di un doppio piano in cui si collocano, in rapporto fra loro, modelli, fenomeni e tecnologia. Può spiegarci questa descrizione? 

Il “doppio piano” nasce quando alle descrizioni degli oggetti e fenomeni reali, per le quali si usa il linguaggio ordinario, si affiancano le affermazioni interne alle “teorie scientifiche”, che riguardano gli enti teorici (nati con il processo descritto nella risposta precedente) e sono dedotte con il metodo dimostrativo dai postulati. Le teorie scientifiche hanno un grande pregio e un limite. Il pregio consiste nel fatto che di ogni affermazione interna alla teoria si può decidere con assoluta certezza se è vera o falsa: un risultato che né il linguaggio ordinario né la speculazione filosofica hanno mai potuto raggiungere. Il limite è però essenziale e consiste nella circostanza che le affermazioni della teoria non riguardano il mondo reale, ma il modello che la teoria ne fornisce: un modello che ha sempre una validità limitata.

Grazie alle teorie scientifiche nasce un nuovo tipo di tecnologia, che può appunto essere detta scientifica. Dopo avere sviluppato la teoria come modello di oggetti e fenomeni reali, il metodo dimostrativo permette infatti (come è mostrato nella figura) di dedurne il comportamento di oggetti virtuali, esistenti nella teoria, ma che non costituiscono il modello di alcun oggetto reale esistente. Se si tratta di oggetti utili, si può allora scendere dal livello teorico a quello concreto, realizzando gli oggetti concreti corrispondenti a quelli virtuali trovati. In ciò consiste la progettazione scientifica. Naturalmente può accadere che il comportamento reale dell’oggetto così costruito non rifletta esattamente le previsioni teoriche: un rischio insito nei limiti del modello, che possono essere esplorati appunto con il metodo appena descritto.

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Andamento nel tempo del numero delle riviste scientifiche in un grafico semilogaritmico (Fonte L. Russo, “Stelle, Atomi e Velieri”)

– Sempre in questo capitolo parla dell’errore che si compie nel ritenere la crescita esponenziale come intrinseca nella scienza. Ci spiega perché non è vero questo o lo è stato solo per pochi secoli?

La scienza esiste da almeno ventitré secoli ed è facile verificare che nella maggior parte di tale tempo non solo non è cresciuta esponenzialmente, ma ha attraversato crisi e declini. In particolare non è difficile capire perché nel Rinascimento, che pure ha rappresentato un periodo particolarmente felice, in cui è nata la moderna scienza europea, non si è verificata alcuna crescita esponenziale, che si è invece innescata nell’ultimo terzo del XVII secolo. I problemi concreti affrontati dagli scienziati rinascimentali riguardavano infatti i consumi delle élite: l’astronomia serviva alla compilazione di complessi oroscopi personali, la botanica alla preparazione di rimedi medicinali, l’ottica e l’anatomia a migliorare i prodotti delle arti figurative, la statica alla costruzione di chiese e palazzi, e così via. I risultati ottenuti erano apprezzati dai mecenati che finanziavano gli scienziati e procuravano loro soddisfazioni personali e prestigio, ma non fruttavano benefici economici. A partire dalla fine del XVII secolo la scienza comincia invece a essere essenziale per migliorare le tecniche di navigazione e quelle militari. Per gli Stati europei il finanziamento della ricerca scientifica diviene allora un investimento capace di produrre ricchezza. Da allora è avvenuto che i risultati scientifici hanno prodotto un aumento dell’entità dei finanziamenti alla ricerca, del numero dei ricercatori e del livello della tecnologia da loro impiegata: fattori dai quali dipende la velocità del progresso scientifico, che è quindi divenuta proporzionale al livello raggiunto, come è tipico dei fenomeni esponenziali.

Come però sanno bene i fisici, nessun processo esponenziale può continuare indefinitamente: nel caso della scienza (o almeno della scienza esatta) credo che il “punto di rottura” sia stato raggiunto qualche decennio fa.

Anassimandro, bassorilievo (Roma, Museo Nazionale Romano).

Anassimandro, bassorilievo (Roma, Museo Nazionale Romano).

– Nel secondo capitolo parla della nascita dell’idea di terra sferica e del contributo fondamentale dato da uomini come Anassimandro, Eratostene e Archimede. Può riassumere alcuni di questi aspetti?

La storia delle idee sulla forma e le dimensioni della Terra mi sembra particolarmente interessante perché permette di verificare in un caso semplice molte caratteristiche proprie della scienza dei vari periodi storici. Il pensiero comunemente detto “presocratico” realizza alcuni passi essenziali, a partire dall’idea di Anassimandro che gli oggetti non cadano “verso il basso”, ma verso la Terra, che quindi non ha alcun motivo per cadere e può benissimo rimanere nello spazio senza che nulla la sorregga. Anassimandro capì anche che i concetti di su e giù sono relativi, immaginando una superficie della Terra opposta a quella sulla quale viviamo in cui tali concetti fossero invertiti. Rispetto a questa rivoluzione concettuale di portata epocale, il passo successivo compiuto da Parmenide, che per primo concepì la forma sferica della Terra, per quanto importante, può essere considerato una generalizzazione: l’equivalenza delle due direzioni individuate dai termini su e giù venne estesa a tutte le altre, introducendo una simmetria sferica.

I progressi appena visti furono essenziali per raggiungere una comprensione razionale della struttura del nostro mondo, ma non possono essere considerati pienamente “scientifici”, in quanto non portano a una teoria all’interno della quale si possano dimostrare teoremi, né a risultati verificabili con misure. Nel primo periodo ellenistico sul nostro tema si ottengono tre risultati tipici del nuovo metodo scientifico:

  1. L’introduzione delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine) permette di costruire un modello matematico (naturalmente approssimato) della superficie terrestre all’interno del quale si possono risolvere problemi quantitativi (ad esempio calcolare la durata delle ore di luce in un certo luogo e in un certo giorno) e verificare con misure l’esattezza dei risultati.

  2. Archimede dimostra con un teorema, basato sul suo postulato di idrostatica e sulla concezione allora corrente della gravità, che la Terra, se fluida, ha dovuto necessariamente assumere la forma sferica.

  3. Eratostene, con il suo famoso metodo, misura con notevole precisione le dimensioni della Terra.

La decadenza del periodo successivo nel nostro caso si manifesta con l’abbandono del sistema delle coordinate sferiche. La parzialità della ripresa avvenuta in età imperale può essere verificata notando come Tolomeo, pur recuperando il sistema delle coordinate sferiche, compia gravi errori, in particolare sulle dimensioni della Terra.

– Ci può spiegare perché è falsa l’idea che nel medioevo si ritenesse la terra piatta e che si dovette combattere l’oscurantismo della chiesa per imporre idea di sfericità?

Poiché la sfericità della Terra era affermata da tutte le fonti antiche (ad esempio Platone, Aristotele, Plinio, Tolomeo…) e anche negli scritti della tarda antichità (come nell’enciclopedia di Marziano Capella, molto usata nel medioevo) non era possibile dimenticarla e infatti autori come Tommaso d’Aquino non hanno dubbi su questo punto. è vero che qualche raro autore (come Cosma Indicopleuste) crede in una Terra piatta, ma si tratta di casi del tutto marginali.

– Il quarto capitolo inizia con la figura di Aristarco di Samo che, nella prima metà del lll a.C., elaborò la sua teoria eliocentrica. Quale “mito” della storia della scienza viene sfatato in questo caso?

Essenzialmente il primo dei tre che avevo indicato. Per lasciar sopravvivere il mito della nascita della scienza nell’età moderna si è dovuta attribuire la “rivoluzione eliocentrica” a Copernico, dimenticando che Copernico stesso aveva affermato di aver tratto l’idea da antiche fonti. Il contributo di Aristarco è stato minimizzato in vari modi: fingendo che si trattasse solo di una vaga “ipotesi” (dimenticando che la parola greca che traslitteriamo “ipotesi” significava “base”, in questo caso della teoria); usando la perdita del trattato di Aristarco sull’argomento per arguire che si trattasse di un’idea puramente qualitativa (dimenticando che all’epoca di Aristarco l’astronomia era già da molto tempo quantitativa); immaginando che Aristarco fosse rimasto isolato nel difendere la sua idea (mentre le fonti non solo parlano di suoi seguaci, ma anche di sviluppi dell’eliocentrismo successivi ad Aristarco). Per avvalorare la tesi di un Aristarco “in anticipo sui tempi” si è addirittura sostenuto che si fosse pensato di processarlo per empietà. Per questo è stato necessario alterare alcune parole in un passo di Plutarco. In realtà era l’idea di processare per empietà gli scienziati che all’epoca di Aristarco non era ancora nata.

Ritratto di Guidobaldo Del Monte

Ritratto di Guidobaldo Del Monte

– Nel quinto capitolo su affronta l’argomento del moto degli oggetti e si introduce una serie di pensatori (alcuni poco noti) il cui pensiero contribuisce a collocare il contributo di Galileo nella giusta ottica. Di quale di questi vorrebbe parlare ai nostri lettori?

Preferirei parlare del maestro di Galileo Guidobaldo Del Monte. Si tratta del primo scienziato che ebbe l’idea di investigare sperimentalmente la forma della traiettoria di un grave e di usare a questo scopo un piano inclinato. Guidobaldo costituisce un importante anello di congiunzione tra il suo allievo Galileo (che gli deve molto) e il suo maestro Federico Commandino: matematico e grecista, autore delle principali traduzioni in latino dei classici scientifici greci e principale esponente di ciò che è detto “Umanesimo matematico”. Dimenticare Guidobaldo è uno dei tanti artifici che permette di spezzare la continuità che lega lo studio dei classici greci alla fisica detta “galileiana”.

– Nel capitolo 6 affronta la gravitazione e, fra le altre cose, esamina il ruolo della teoria delle maree sostenendo che nella storia della scienza non viene colto in tutta la sua portata. Anche se sinteticamente, può accennare ai nostri lettori il perché?

I lettori interessati a questo argomento possono leggere il mio libro “Flussi e riflussi”. Qui ricordo solo che le maree sono l’unico fenomeno terrestre in grado di fornire una prova dell’eliocentrismo. Galileo, che aveva tratto quest’idea da antiche fonti, dedicò appunto alle maree il suo famoso “Dialogo dei massimi sistemi”, ma, avendo frainteso le fonti, elaborò una teoria logicamente debole e contraddetta dai fatti. Secondo la mia ricostruzione una prova corretta dell’eliocentrismo, basata sul fenomeno delle maree, era stata ottenuta da Seleuco di Seleucia nel II secolo a.C.

-Nel capitolo 7 di parla di navigazione. In che senso, in base alle sue ricerche, è possibile affermare che lo studio della navigazione è stato importante per lo sviluppo scientifico?

Direi che è stato essenziale nel periodo compreso tra la fine del XVII secolo e l’inizio della rivoluzione industriale (che fornì molti altri stimoli alla ricerca scientifica). In quel periodo ben pochi risultati delle scienze esatte non furono originati, direttamente o indirettamente, dall’esigenza di migliorare le tecniche di navigazione. In quel capitolo del libro ne faccio un lungo elenco. Qui ricordo solo che non è certo un caso se la scienza dell’epoca fu sviluppata soprattutto da grandi potenze navali, come l’Inghilterra, l’Olanda e la Francia.

-Nel successivo capitolo, dedicato alle stelle, affronta lo scontro fra l’idea di un cosmo racchiuso in un guscio e quella di un universo infinito. Lasciando i particolari a chi deciderà di leggere il suo libro, ci può spiegare in che modo, secondo lei, è confermata l’idea di Kuhn di una scienza che ignora i fatti contrari ai suoi paradigmi?

Thomas Kuhn

Thomas Kuhn

L’idea di Kuhn, oltre che alla scienza, può essere applicata anche alla storiografia scientifica. In particolare il paradigma storiografico (accettato, tra gli altri, anche dallo stesso Kuhn) secondo il quale l’idea di un universo infinito sarebbe caratteristico della modernità e si contrapporrebbe all’idea “antica” di un mondo chiuso ha impedito a molti storici di prendere in considerazione le tante fonti che documentano l’antica idea di un universo infinito. Il paradigma dominante è ben sintetizzato dal titolo di un famoso libro di Alexandre Koiré, dedicato alla rivoluzione scientifica moderna: “Dal modo chiuso all’universo infinito”.

– Nel suo capitolo sull’elettricità e il magnetismo porta alla luce il contributo di figure poco note: il gesuita Leonardo Garzoni e Benedetto Castelli. Quali sono stati i loro contributi?

Leonardo Garzoni è molto interessante perché nella sua opera sul magnetismo, che fu una fonte essenziale del famoso trattato di Gilbert, riporta un gran numero di esperimenti sul magnetismo, da lui effettuati prima del 1580. Abbiamo una prova in più del fatto che il metodo sperimentale moderno non è stato iniziato da Galileo. L’opera di Garzoni è stata in genere ignorata perché, pur circolando largamente ai suoi tempi in forma manoscritta, è rimasta inedita fino all’edizione del 2005, curata da Monica Ugaglia. Benedetto Castelli è stato un personaggio centrale della scuola galileiana, spesso sottovalutato. Ricordiamo che i principali esponenti della scuola, ossia Bonaventura Cavalieri, Evangelista Torricelli e Giovanni Alfonso Borelli, sono tutti e tre allievi non di Galileo, ma di Castelli. Il suo contributo al magnetismo è di grande importanza, perché fu il primo a interpretare i fenomeni di magnetizzazione e smagnetizzazione come passaggi dal disordine all’ordine, o viceversa, di un gran numero di magneti microscopici. Fu probabilmente il primo caso dell’uso in fisica dei concetti di ordine e disordine.

– L’ultimo capitolo del suo libro è dedicato ad una interessantissima analisi dei concetti di “matematica” e “fisica”. In particolare, descrive come la separazione fra le due discipline si sia sviluppata nel tempo e sia molto meno scontata di quello che normalmente si ritiene. Quali sono le sue considerazioni in merito a questo, al rapporto fra matematica e fisica nonché sul ruolo differente dei fisici-matematici e dei fisici teorici?

Per una vera risposta a questa domanda non posso che rinviare all’ultimo capitolo del mio libro (che è già un’esposizione molto sintetica di un argomento che meriterebbe una trattazione ben più ampia). Qui posso solo invitare chi crede che la matematica e la fisica siano due discipline ben distinte a provare a tracciare la linea di demarcazione in opere come quelle di Archimede, Eulero o Arnold. Posso anche ricordare la provocatoria definizione di matematica data da Arnold (che, per chi non lo sapesse, è stato uno dei massimi matematici del nostro tempo): “la matematica è quella parte della fisica in cui gli esperimenti costano poco”. In effetti nella civiltà ellenistica, come anche all’epoca di Galileo, vi era una sola disciplina: la separazione tra matematica e fisica risale all’epoca di Newton, ma è stata ignorata da molti dei massimi esponenti della scienza esatta moderna.

La questione del confine tra la fisica matematica e la fisica teorica è molto delicata e credo richiederebbe più attenzione da parte degli storici della scienza e degli epistemologi. Qui posso solo dire, provocatoriamente, che l’accettazione contemporanea di affermazioni tra loro contraddittorie è vietata in una delle due discipline, mentre nell’altra non solo è permessa, ma è anche incoraggiata.

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