Continuità e discontinuità sono due vocaboli immancabili nel lessico di un matematico ( e di uno scienziato in generale). Ma perché il concetto di continuità è così ricercato tra gli scienziati? A chi giova trattare fenomeni continui? La natura è davvero un esempio di “evento con continuità”?

A queste e a molte altre domande cercherò di rispondere tramite questo breve articolo. cercherò, inoltre, di accendere un riflettore sulla percezione filosofica della continuità e delle singolarità e di come questa influenzi la nostra visione del mondo. [1]acqua_c


Storia e struttura del pensiero scientifico.

imageNel saggio “Storia e struttura del pensiero scientifico”, il matematico e filosofo Federigo Enriques esamina alcuni aspetti fondazionali essenziali della matematica come entità filosofica di vita propria. Dedica, in particolare, un importante paragrafo, dal titolo “Esigenze razionali nella ragione scientifica”, a degli schemi logici essenziali in cui comunemente si incappa durante lo studio della scienza in toto. Per Enriques vi sono due elementi comuni nel fenomeno euristico della produzione scientifica: la ricerca dell’invarianza e la tendenza alla continuità.

Continuità.

La tendenza alla continuità è la seconda grande “esigenza” nella fenomenologia del “fare scienza”. Il concetto di continuità è, però, più complesso di quello di invarianza. Essa descrive una proprietà primaria nella logica in generale e definisce, spesso, un metodo di analisi comune nella vita di tutti i giorni. È da precisare, quindi, che l’idea di continuità a cui si fa riferimento ora è affine alla proprietà analitica di continuità, tuttavia quest’ultima non la esaurisce completamente.
Cercare continuità nei fenomeni è stato da sempre il punto cruciale della ricerca scientifica e la pietra miliare delle teorie deterministiche. Ciò rappresenta la possibilità di comprendere facilmente ed in maniera pressoché banale l’immediata “vicinanza” di un evento. Si sposti, quindi, l’attenzione dall’idea di continuo a quella di vicino. In effetti, l’aggettivo vicino che si sta utilizzando ha un significato ben più ricco di quello geometrico. Si considerino due punti vicini, a patto che siano caratterizzati da molti elementi in comune, da un comportamento analogo, da proprietà similari ma non tali da poter essere identiche. Prendendo ad esempio il tempo, due eventi sono vicini (con riferimento ad un terzo) se l’istante in cui avvengono entrambi è praticamente simile, assimilabile l’uno all’altro. In analisi, il concetto di vicinanza è espresso tramite la scrittura in $$ \epsilon – \delta$$, e grazie allo studio degli infinitesimi si dice che due punti sono vicini se la loro differenza è molto poca, quasi zero. Ecco: considereremo la differenza come metro di valutazione della vicinanza.

Determinismo e caos.

Si veda, allora, cosa ci si aspetta che succeda in un sistema che gode della proprietà di continuità ed in uno dove questa non è riscontrabile.

Si consideri uno stagno. Già di per sé l’osservazione di uno stagno in quiete è un esempio di fenomeno stabile, e quindi sicuramente continuo. Ma si supponga che da un albero molto alto cada una goccia nel centro del nostro stagno. Il fenomeno a cui ci si aspetta di assistere è praticamente ovvio: dal momento in cui la goccia cade in acqua si creeranno delle onde concentriche che si estendono dall’origine verso i bordi dello stagno. È chiaro dopo poche osservazioni che il moto è ripetitivo, prevedibile, deterministico. Seppur si noti che al passare del tempo l’intensità di questo si fa sempre minore, si continui a vederne gli effetti, le stesse forme con la stessa cadenza. Questo è un esempio di fenomeno continuo. Ad ulteriore conferma si consideri il fatto seguente: se si fotografassero in un numero molto grande di scatti sequenziali dall’inizio alla fine questo processo, si potrebbe osservare chiaramente che prese due qualsiasi istantanee vicine queste differiscono di poco. Per spostamenti (temporali) molto piccoli si hanno, quindi, cambiamenti esigui.
L’esempio di un fenomeno non continuo è invece un qualsiasi esempio di catastrofe nel nostra sistema, che sia questo li Sistema Solare, la Terra, l’Italia o la nostra città. Il legame è così stretto tra l’idea di catastrofe e quella di discontinuità che esiste una teoria matematica nota con il nome di Teoria delle singolarità o, appunto, teoria delle catastrofi. Essa si propone di studiare fenomeni fortemente discontinui in un punto per comprendere cosa succede e come affrontare questa problematicità. Un tipico esempio di catastrofe è il terremoto, ossia, un fenomeno geofisico imprevedibile e che crea una dissonanza tra il prima e il dopo. In questo caso, istanti molto vicini, possono descrivere scene completamente differenti. È il drammatico caso della cittadina umbra di Norcia, quando nell’Ottobre dello scorso anno, in pochi minuti si è dovuto assistere al crollo della famosa Cattedrale di San Benedetto. Le due immagini che seguono mettono in risalto la drammatica discontinuità dell’evento.

NORCIA3

Questi due esempi sono fortemente esplicativi. Infatti, nel primo caso le teorie deterministiche della filosofia di fine Ottocento sembrano farla da padrone. L’analisi di fenomeni come questi aveva portato molti studiosi a credere che la realtà potesse essere matematicamente prevedibile, in quanto essenzialmente continua. La tedesca Sofia Kowaleskaja, discepola del matematico Karl Weierstrass e fondatrice assieme a lui dell’analisi per come oggi la conosciamo, prende parte alla querelle sulla prevedibilità o meno degli eventi, presentando a proprio favore il concetto di funzione analitica continua. Ma non solo. Personaggi dello spessore di Charles Darwin e Herbert Spencer avevano fondato le proprie teorie sul concetto di continuità, analizzando il caso naturalistico dell’evoluzionismo come cambiamento graduale dell’anatomia dell’animale.

D’altro canto, come afferma Enriques: “Ovunque in tutti i regni della natura […] si sono potuti additare e mettere in contrapposto ai fattori dell’eveoluzione contuinua i fattori discontinui!”. E per questa ragione è sorta una disciplina matematica chiamata Teoria del Caos che si occupa di approfondire quella categoria di eventi, fenomeni e funzioni la cui continuità è pressoché scarsa. Sono oggetto di studio, in particolare, quelle equazioni per cui al variare minimo di un parametro o di un dato iniziale la soluzione che ne deriva è assai differente. In questi contesti, si ha una definizione opposta rispetto a quella vista di continuità: qui, dati due punti molto vicini, ciò che ad essi si associa matematicamente (e fisicamente) risulta molto lontano e complesso da studiare.
Restano chiare, per il fronte antideterministico, le parole del matematico Henri Poincarè:

[…] pure se accadesse che le leggi naturali non avessero più alcun segreto per noi, anche in tal caso potremmo conoscerHenri_Poincaree la situazione iniziale solo approssimativamente. Se questo ci permettesse di prevedere la situazione successiva con la stessa approssimazione, non ci occorrerebbe di più e dovremmo dire che il fenomeno è stato previsto, che è governato da leggi. Ma non sempre è così; può accadere che piccole differenze nelle condizioni iniziali ne producano di grandissime nei fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime produce un errore enorme nei secondi. La previsione diviene impossibile e si ha un fenomeno fortuito.

Jules-Henri Poincaré – “Science et méthode”
1903

La continuità in analisi.

Nello specifico caso dell’analisi matematica, il concetto di continuità sembra la faccia da padrone. In effetti, già nelle prime lezioni dei corsi di Analisi tanto nelle scuole quanto nelle università si introduce la definizione di funzione continua, come argomento cardine per tutte le considerazioni che seguiranno.

Per un matematico alle prime armi, intuire dal grafico se una funzione è continua o meno risulta molto semplice: se riusciamo a tracciare l’intero grafico della stessa senza staccare la penna dal foglio di lavoro, questa è fortunatamente una funzione continua. Formalmente si dice che $$f:X\rightarrow \mathbb{R}$$ una funzione reale di variabile reale è continua nel punto $$x_0$$ di $$X$$ se:

$$\forall \epsilon >0$$ $$ \exists \delta >0$$ t.c. $$|x-x_0|<\delta \Rightarrow |f(x)-f(x_0)|<\epsilon $$

Non essendo questo un linguaggio evidentemente chiaro, tentiamone una piccola traduzione:

Per ogni $$\epsilon >0$$ esiste $$\delta >0$$ per cui se la differenza tra $$x$$ e $$x_0$$ è più piccola di $$\delta$$, allora la differenza tra $$f(x)$$ e $$f(x_0)$$ è minore dell’$$\epsilon$$ fissato.

L’idea di vicinanza è espressa in questa definizione ben due volte: la prima nel caso della differenza tra $$x$$ e $$x_0$$, la seconda nella differenza tra $$f(x)$$ e $$f(x_0)$$. Potremmo, infatti, sostituire la parola “differenza” con la parola “distanza” senza modificarne il significato. In entrambi i casi, infatti, si considerano i punti come giacenti su di una retta e se ne calcola la distanza.

I valori $$\epsilon$$ e $$\delta$$ sono numeri arbitrari (non specificati) e preferibilmente molto piccoli. Questa scrittura è tipica dell’analisi infinitesimale, la cui origine storica è causa tuttora di una disputa tra i sostenitori dell’inglese Newton e quelli del tedesco Leibniz. Ad ogni modo, essa è stata scelta proprio per indicare quantità numeriche molto piccole scelte in maniera casuale. In particolare, questo ci risulta utile per comprende come i punti $$x$$ e $$x_0$$ e i punti $$f(x)$$ e $$f(x_0)$$ siano essenzialmente vicini. Infatti, affermare che la distanza tra le coppie di punti è più piccola di un valore numerico infinitesimo equivale ad affermare che questi sono molto vicini tra loro se rappresentati (come nel nostro caso) su di una retta.

Ma allora, cosa intende definire la parola “continuità” in analisi?
Basta ricomporre i pezzi qua e là per parafrasare la definizione nel seguente modo

Una funzione $$f$$ si dice continua nel punto $$x_0$$ se preso un valore molto piccolo a piacere, ne esiste un altro analogamente infinitesimo per cui: tutti i punti ($$x$$) a distanza minima (minore di $$\delta$$) da $$x_0$$ sono portati dalla funzione $$f$$ nel punti $$f(x)$$ e $$f(x_0)$$ che restano ancora molto vicini tra loro, meno di quanto inizialmente fissato ($$\epsilon$$, appunto)

Più facile a farsi che a dirsi!
La scelta dei matematici di prediligere funzioni continue a quelle discontinue è essenzialmente una semplificazione. Trattare con funzioni per cui si riesce bene a prevedere il comportamento del grafico a partire da punti vicini riduce di molto le difficoltà. Questo trucchetto ci permette di utilizzare con più libertà anche il nostro intuito, che tende a lavorare anch’esso “rigettando” ipotesi di discontinuità. Risulta più palese, in questi casi, come disegnare il grafico della nostra $$f$$ o cosa succederà alla stessa qualche “passo più in là”.

Noi e la continuità.

Ebbene, anche la nostra mente tende alla continuità. Forse perché, come appena visto, semplifica di molto alcune operazioni. Si consideri il caso di due mani sovrapposte e di un pittore che decida di raffigurarle sulla propria tela. Ovviamente egli non si dedicherà a disegnare tutti i dettagli di quella parte di palmo coperta dalla mano soprastante. Eppure, la nostra mente immaginerà (con i pochi tratti scoperti) una seconda mano dietro la prima. Cosa è successo? Semplice: il nostro cervello ha “unito i puntini” come nei giochi enigmistici, con continuità. Nessuno andrebbe, infatti, ad immaginare che dietro alla mano in primo piano non vi sia una seconda mano “intera” bensì solo pezzi (mozzati) della stessa. Questo sarebbe discontinuo (e anche particolarmente macabro).

Ciò che possiamo concludere, quindi, è che esistono dei “modus operandi” pressoché identici nelle varie scienze e nel nostro modo di vedere il mondo. Dei fattori comuni che forse Dio, la natura o il caso hanno reso essenziali affinché tutto si svolga al meglio, con ordine. La matematica, in questo caso, sembra la strada più serena, quella più evidente.
Mi permetto di credere, infine, che ciò di cui noi essenzialmente siamo composti (oltre la carne, si intende) è proprio questo modus operandi, questa forza che tutto dirige, questa grande dea che ci permette di comprendere ciò che ci circonda. Forse siamo fatti, parafrasando un famosissimo poeta inglese, fatti della stessa sostanza dei tanto odiati numeri.

[1] Devo queste belle parole a Giulia, revisore del post, della quale rispetto la “paternità”.

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