barbiereIn un villaggio vi è un solo barbiere; un uomo ben rasato a dire il vero. Il barbiere di questo paese rade tutti e solo gli uomini che non si radono da soli. Chi rade il barbiere?

Se pensate che il barbiere possa radersi da solo siete in errore perché in questo caso verrebbe meno la premessa per cui il barbiere debba radere solo gli uomini che non si radono da soli. Se non è zuppa è pan bagnato dicevano i nostri nonni per cui possiamo dedurre che il barbiere non si rade da solo e pertanto dovrebbe essere rasato dal barbiere del paese che è lui stesso. E qui mi sembra esserci qualcosa che non quadra!

Ma perché un barbiere che non sa a chi affidare la propria rasatura dovrebbe essere un problema per noi? Non potrebbe, lui, farsi semplicemente crescere la barba e non pensarci più?

Quello appena presentato è noto come il paradosso del barbiere e non è altro che un modo diverso di esprimere il paradosso di Russell formulato dall’omonimo filosofo e matematico nel 1918. Ed esso risulta oggi particolarmente famoso perché ha segnato l’apertura di un’infausta epoca per i matematici di tutto il mondo.

Facciamo un passo indietro e proviamo ad inquadrare il tutto in un contesto più generale.

Nel XIX secolo Georg Cantor diede nuova vita alla teoria degli insiemi introducendo un punto di vista completamente nuovo. In particolare, Cantor rispose in modo nuovo alla domanda

come sapere se due insiemi contengono lo stesso numero di elementi?

Il numero di elementi di un insieme è detto cardinalità e per Cantor due insiemi hanno la stessa cardinalità se è possibile appaiare a coppie gli elementi dell’uno e dell’altro insieme in modo tale che tutti gli elementi di un insieme abbiamo un corrispettivo nell’altro insieme. Questo “appaiare gli elementi”, ovviamente, è soggetto a regole ben precise. Ogni elemento di un insieme deve essere preso una volta e deve appaiarsi con un solo altro elemento altrimenti sarebbe barare. Seconda proprietà, scontata ma per questo degna di nota, è che l’appaiamento degli elementi deve valere in entrambi i sensi.

Il tallone d’Achille, se così possiamo chiamarlo di Cantor, era il suo approccio non assiomatico agli insiemi. Anche se non formulati espressamente, gli assiomi che Cantor utilizzava nella sua trattazione erano essenzialmente tre; l’assioma di estensione (due insiemi sono uguali se contengono gli stessi elementi); l’assioma dell’infinito (che assicura l’esistenza, tra l’altro, dell’insieme dei numeri naturali) e l’assioma di comprensione (esiste un insieme B tale che gli elementi rispecchiano un certo enunciato P).

Tra tutti gli assiomi usati implicitamente da Cantor era proprio l’ultimo a dare problemi. I problemi nacquero quando Russell si accorse che a partire da esso si poteva giungere a dei paradossi. Si consideri ad esempio il seguente enunciato L’insieme di tutti gli elementi che non appartengono a sé stessi o, per essere più rigorosi

$$R=\{x| x \not\in x\}$$

Si pone dunque il concetto di sapere se R appartiene a sé stesso o meno (siamo ritornati al paradosso del bibliotecario). Se R appartiene a sé stesso allora esso soddisfa la definizione quindi R è uno degli “insiemi che non appartengono a sé stesso” in contraddizione con il primo enunciato. Se R non appartiene a sé stesso allora esso non soddisfa la definizione quindi R è “uno degli insiemi che non appartengono a se stessi” quindi R appartiene a se stesso contraddicendo l’enunciato di partenza. In termini logici si ha

$$R \in R \iff R \notin R$$

Che si può tradurre nel seguente gioco di parole: l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso. Che, stranamente, risulta più semplice da esprimere con il linguaggio formale:

se $$R={x| x \in x}$$ allora $$R \in R \iff R \notin R$$

Perché il paradosso di Russell fece cosi tanto scalpore? Le conseguenze di questo paradosso si estesero a tutti i campi della matematica dando inizio a quella che viene conosciuta come crisi dei fondamenti della matematica.

Ancora una volta occorre inquadrare storicamente la crisi dei fondamenti per comprenderne a pieno le implicazioni. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si era diffusa la tendenza a formalizzare in modo univoco tutti i concetti della matematica prima e dell’aritmetica poi. Un nutrito gruppo di scienziati si impegnò per formalizzare e dimostrare in modo univoco tutte le preposizioni matematiche. Questo sforzo, certamente degno di nota, si scontrò con una serie di paradossi (quello di Russell fu il primo di una lunga serie) che dimostrarono l’incompletezza della matematica. Ciò generò un clima di sfiducia e di sconforto che si ripercosse, oltre che su tutti i campi della matematica, anche sulla fisica, sulla psicologia e sulla filosofia. Alla crisi dei fondamenti si fa risalire, tra le altre cose, la caduta delle dottrine positiviste.

Certamente il colpo fu duro e ben assestato; ma non mortale. I matematici si rimisero in piedi, come un pugile rialzatosi al nono, e ripresero a lavorare i fianchi per attaccare i paradossi e risolverli. In particolare, furono tre le strade che i matematici intrapresero.

La prima corrente fu quella intuizionista guidata da Bouwer che rifiutava ogni logica e ogni assiomatizzazione sostenendo che la matematica viene prima della logica e procede con l’intuizione non formale. Tutto molto interessante cantava qualcuno ma… con la loro filosofia gli intuizionisti dovettero rinunciare alla regola del Tertium non datur (il principio del terzo escluso) essendo ogni proposizione suscettibile di non essere verificata.

La seconda corrente fu quella detta “teoria dei tipi” sviluppata dallo stesso Russell e da Whitehead. Per Russell tutti i problemi nascevano dall’autoreferenzialità di alcuni insiemi e quindi questa doveva essere abolita. Per fare ciò Russell divise gli oggetti matematici in diversi tipi; al tipo 0 appartenevano gli elementi semplici, al tipo 1 gli insiemi e al tipo 2 gli insiemi di insiemi. Il trucco adottato da Russell fu quello di stabilire, quasi arbitrariamente, che dato un elemento di tipo n esso potesse appartenere solo ad elementi di tipo n+1; ovvero gli elementi appartengono agli insiemi, gli insiemi agli “insiemi di insieme” e un “insiemi di insieme” non può appartenerne ad un altro in quanto dello stesso tipo. Il punto debole di questa teoria era la necessità di ricorrere ad assiomi non evidenti dal punto di vista logico come l’assioma dell’infinito, l’assioma di scelta (dato un insieme di insiemi X i cui elementi siano disgiunti e non vuoti esiste un insieme Y che contiene un elemento per ogni insieme di x) e l’assioma di riducibilità (è possibile passare da un insieme all’altro mediante solo operazioni elementari).

La terza strada, quella dei formalisti, ebbe come apri pista Hilbert e, come suggerisce il nome, si basava sul concetto che tutta la matematica poteva essere assiomatizzata e che ogni teoria matematica poteva ritenersi tale solo dopo averne dimostrato la non-contradditorietà (ovvero l’impossibilità di dimostrare una contraddizione in essa).

Tutte queste strade, per un certo periodo, sembrarono mettere all’angolo i paradossi e l’incompletezza matematica e i matematici sembrarono riappropriarsi del campo di battaglia. Il colpo di grazia arrivò nel 1931 per opera di un matematico austriaco: Kurt Gödel. La vittoria fu definitivamente assegnata alla matematica e la sua incompletezza fu dimostrata, questa volta, senza ombra di dubbio.

1925_kurt_gödelIl lavoro di Gödel si basava ampiamente su quello dei formalisti Hilbertiani e, infatti, in un primo momento (nel 1930 per l’esattezza) Gödel per primo dimostrò il teorema di completezza. Esso nel suo insieme afferma che un sistema deduttivo del primo ordine (un sistema formale in cui è possibile esprimere enunciati e dedurre le loro conseguenze in modo del tutto formale e meccanico) è completo se ogni proposizione vera può essere dimostrata internamente al sistema; tale teorema ha la sua controparte, il teorema di correttezza, che afferma la veridicità di tutte le preposizioni dimostrabili (tutte le preposizioni dimostrabili sono vere in sostanza).

Solamente l’anno dopo con un tradimento tale da far sembrare Finn il più fedele dei compagni ecco vedere Gödel ridimensionare le proprie idee con la dimostrazione del primo dei sue due teoremi di incompletezza.

Il primo dei suoi teoremi afferma che dato un sistema di assiomi atto a definire l’insieme dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e moltiplicazione esisterà sempre, in tale insieme, un’affermazione non dimostrabile.

Il secondo teorema di Gödel afferma, invece, che nessun sistema che contiene l’aritmetica e che sia coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua coerenza.

In sostanza il lavoro di Gödel si focalizzò su due punti fondamentali; da un lato egli dimostrò che se il sistema di assiomi dell’aritmetica è consistente allora contiene proposizioni non dimostrabili; dall’altro si focalizzò sull’impossibilità di dimostrare la consistenza dell’aritmetica mediante gli assiomi dell’aritmetica stessa. Questo diede un grosso colpo alla matematica stessa stabilendo, in modo definitivo, l’impossibilità di stabilire la consistenza della matematica stessa.

Bene, prima di abbandonare la civiltà cosi come la conosciamo e ritornare al baratto andrebbe da considerare che le affermazioni non dimostrabili non sono certo del tipo 2+2=4 ma di natura ben più complessa. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che indipendentemente dalla complessità o meno degli assiomi non dimostrabili questi restano non dimostrabili e hanno implicazioni più o meno marcate in tutti i campi della scienza e della tecnica quindi andrebbero comunque tenuti in considerazione.

Quello che non si deve dimenticare è che per quanto ci sforziamo un alone di mistero e di incertezza avvolgerà sempre la matematica in ogni suo campo e per quanto ci sforzeremo di completare il puzzle ci sarà sempre un pezzo mancante; magari più piccolo ma sempre mancante, e chiunque lavori con la matematica dovrà imparare a convivere con questo senso di vuoto.

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