Cavallo in f3. Donna in c6. Quando la tattica e la strategia di gioco sembrano i passaggi di un algoritmo, allora i quadrati bianchi e neri possono aiutarci a entrare meglio nel mondo della matematica (e dell’informatica)? Non è un caso che alcuni campioni di scacchi fossero anche matematici, e viceversa. Intervistiamo il prof. Pietro Ferrara, docente di Informatica all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto scacchista.

Pietro Ferrara

MM: La matematica non è molto amata dai ragazzi: il gioco degli scacchi può aiutare nell’insegnamento/apprendimento della matematica  e dell’informatica? Se sì, attraverso quali meccanismi?

PF: Penso che per poter rispondere a questa domanda sia necessario affrontare almeno tre temi distinti. Innanzitutto, che matematica viene insegnata ai ragazzi? Spesso si tratta di una materia di cui si insegnano in maniera meccanica alcuni meccanismi (ad esempio, le tabelline) raramente affrontando la parte più concettuale e creativa che questa fantastica disciplina espone. È quindi più che comprensibile che questa matematica non sia amata dai ragazzi in generale.

L’Università Ca’ Foscari, sede centrale sul Canal Grande. Da unive.it

Ma quali sono gli aspetti che possono accomunare scacchi, matematica e informatica? Premesso che non ho conoscenze pedagogiche approfondite su questo argomento, personalmente ho sempre trovato queste tre discipline molto simili: in tutti e tre i casi si tratta di applicare delle regole fisse e rigide (il movimento dei pezzi, le definizioni formali, i costrutti che sono supportati da un computer o da un linguaggio di programmazione) che possono risolvere solo una minima parte di un problema, che in realtà è molto più complesso e ingestibile nell’immediato (vincere una partita, dimostrare un teorema, scrivere un programma che fornisca alcune funzionalità). Sviluppare una soluzione (quasi mai ottimale ma quanto più efficace possibile) in tale contesto richiede di sviluppare capacità molto specifiche e simili tra loro (su tutte un approccio basato sull’idea di divide et impera).

Ad esempio, per valutare la prossima mossa da fare in una partita spesso consideriamo svariate possibilità ed eseguiamo quella che sembra più promettente per raggiungere lo scopo, ovvero la vittoria. Chiaramente non siamo sicuri del risultato finale, ma semplifichiamo il problema iniziale con un problema che possiamo affrontare e cerchiamo la soluzione che ci sembra, in quel momento, ottimale. Lo stesso accade quando cerchiamo di risolvere un’equazione: applichiamo una serie di regole per trasformare l’equazione iniziale in una equivalente in modo da avvicinarci il più possibile alla soluzione finale. E se ci pensiamo bene cosa fa un programmatore quando sviluppa un sito Internet o un’applicazione per il cellulare? Spezzetta il problema iniziale in tante piccole parti che possono essere risolte utilizzando gli strumenti a disposizione, e poi implementa le singole parti una ad una.

Immagine tratta da raicultura.it

È importante sottolineare però che nelle diverse discipline il modo di procedere è molto diverso: a scacchi si può fare una ed una sola mossa e se si sbaglia non si può tornare indietro, nella matematica si può procedere per tentativi sviluppando varie sequenze di inferenza fino a trovare la soluzione desiderata, mentre nell’informatica si può eseguire automaticamente la procedura molte volte in modo da controllarne la robustezza complessiva.

Una volta effettuata una mossa, negli scacchi non è possibile tornare indietro.

In tale contesto penso che tra le tre discipline gli scacchi siano indubbiamente quelli piu’ attraenti per i ragazzi in quanto mascherano le parti meccaniche e ripetitive del processo cognitivo e deduttivo sotto la veste del gioco stimolando anche la competizione e l’agonismo.

MM: Più in particolare, in che modo il gioco degli scacchi può aiutare lo sviluppo del pensiero formale utile per le dimostrazioni in matematica?

PF: Gli scacchi stimolano, per quanto raccontavo precedentemente, lo sviluppo di un pensiero logico-deduttivo che è tipico della matematica. Ad uno sguardo non attento potrebbero sembrare due cose diverse e lontane, ma in realtà sono due facce della stessa medaglia, in quanto il modus operandi è molto simile, in un caso mascherato sotto forma di gioco, nell’altro più diretto e puro.

MM: Matematica e informatica: quali sono le interazioni reciproche?

PF: Per me le basi dell’informatica sono interamente all’interno della matematica: il modello di un calcolatore, la teoria della calcolabilità, le operazioni che possono essere effettuate su un calcolatore sono stati definiti e studiati con un approccio interamente matematico, e ciò ha permesso lo sviluppo dei calcolatori robusti e potenti che oggi conosciamo. Ovviamente poi con l’applicazione sempre più estesa dell’informatica alla vita di tutti i giorni si sono aperti spazi in quasi tutte le discipline scientifiche e umanistiche per l’informatica, che oggi spazia dalla bioinformatica allo studio delle fake news. Ma le radici affondano saldamente nella matematica.

MM: Può dirmi qualcosa della Sua esperienza per quanto riguarda il mondo degli scacchi, quando ha iniziato, grazie a chi o a che cosa, e cosa l’attrae particolarmente di questo mondo?

PF: Ho iniziato a giocare a scacchi da bambino a casa la sera con mio papà. Quando avevo 6 anni ho iniziato a partecipare ai corsi organizzati dalla Ludoteca di Mestre e tenuti da Carlo Ragazzini, un istruttore straordinario che mi ha trasmesso la passione per questo gioco. Da ragazzo ho partecipato a tanti tornei (locali e nazionali) fino all’adolescenza, e qui come molti ho lasciato gli scacchi. Li ho poi ripresi durante il mio dottorato, ed oggi sono il mio hobby principale.

Lo trovo un gioco estremamente appassionante e interessante: seppur la scacchiera sia limitata (64 case) così come la tipologia e numero dei pezzi, c’è sempre da imparare, e ogni partita è una storia a sé stante!

Un esempio di scacchiera, dal web

MM: Cosa si può realmente insegnare dell’informatica e del gioco degli scacchi? In altri termini, si può pensare a un confine tra ciò che si trasmette e ciò che è intuizione o creatività personale?

PF: In entrambi i casi è estremamente facile trasmettere le basi di entrambe le discipline, ma quando poi si progredisce si arriva sempre ad un punto in cui alla conoscenza personale è necessario combinare una propria creatività, oltre che sfruttare l’esperienza pregressa. Basta vedere come si sono evoluti gli scacchi negli ultimi 150 anni: abbiamo oggi libri che contraddicono apertamente la teoria che si applicava fino a 50 anni fa! E lo stesso nel mondo dell’informatica (che, a onor del vero, è molto più giovane e quindi più in evoluzione): negli ultimi 50 anni sono stati introdotti ed utilizzati diversi linguaggi di programmazione, talvolta molto differenti tra loro, e le tecnologie e pratiche utilizzate nello sviluppo e nell’ingegneria del software sono evolute sensibilmente. Da una parte ciò è dovuto a un’evoluzione naturale in base alle nuove applicazioni che emergono, dall’altra è frutto anche di intuizioni di singoli che hanno cambiato radicalmente la pratica. Di conseguenza spesso la conoscenza trasmessa è solo l’inizio di ciò che serve per essere un buon informatico o giocatore di scacchi!

MM: Considerando i diversi problemi che comporta l’avanzare dell’età, si può ipotizzare un limite “fisiologico” per l’apprendimento del gioco degli scacchi? Oppure per continuare a giocare a scacchi? Questa potrebbe infatti rappresentare un’attività stimolante anche per persone con problemi motori.

PF: No, non credo al limite d’età, gli scacchi sono uno sport che non avendo una prestazione fisica permettono a persone di qualsiasi età, sesso, limiti motori, etc. di competere alla pari. Ovviamente i più giovani imparano più velocemente e sono spesso più flessibili e spregiudicati, ma ciò non significa che non si possa competere ad armi pari!

Un disegno ispirato alla Prima Guerra Mondiale. Da citascacchi.wordpress.com: “Scacchi. La storia, i pezzi, i giocatori e la passione di 1.000 anni” (Master Pieces, 2000) di Gareth Williams, IdeaLibri 2001.

MM: Il gioco è “il far finta che”. Quanto il gioco degli scacchi è “gioco” e quanto è strategia finalizzata all’annientamento dell’avversario? Potremmo considerarlo un modo per scaricare l’aggressività, specialmente nel mondo giovanile?     

PF: In realtà gli scacchi hanno regole molto rigide che impongono il massimo rispetto tra i giocatori: ci si stringe la mano a inizio partita, non si parla, non si disturba l’avversario, se si tocca un pezzo bisogna muoverlo, etc.. Se da una parte quindi è un gioco di guerra, dall’altra parte si tratta una guerra tra “gentiluomini”.

In questo modo gli scacchi secondo me insegnano a gestire la tensione e l’aggressività. Si tratta infatti di uno dei pochi sport (perché gli scacchi questo sono, uno sport a tutti gli effetti!) in cui la competizione agonistica si svolge su una sedia senza possibilità di correre, saltare, urlare, praticamente non ci si può muovere! Riuscire a gestire la tensione agonistica e le emozioni durante la prestazione sportiva mantenendo contegno e rispetto dell’avversario è estremamente difficile, e da bambino è stata una ottima palestra per riuscire a gestire simili situazioni in contesti diverse.

Immagine tratta da it.vecteezy.com

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