In seguito alla scoperta dell’esistenza dei numeri irrazionali e dell’incapacità dell’essere umano di calcolarne il valore, d’infinito in matematica se ne continuò a parlare per poco: tecnicamente mancavano le basi per poter affermare persino cosa fosse e cosa non fosse infinito. La cultura greca dei grandi politici come Pericle e dalla moltitudine di filosofi, sembrava sorprendentemente incapace di concepire una realtà “incontenibile”. Anche per i più acuti geomètri e algebristi era chiaro dover paragonare l’infinito a delle “[…] parole che si sono svuotate completamente da ogni significato intuitivo” citando il matematico J. Dieudonné. Si pensi che tra i filosofi greci vi era la certezza che solo il Divino potesse essere infinito perché ingenerato ed eterno. È chiaro, quindi, che la matematica si va a scontrare con la filosofia e persino con la religione: non poteva esistere un’entità infinita (neanche in matematica) e paragonabile all’immensità delle Divinità. Parlare di infinito, quindi, diventava quasi rischioso e, sicuramente, non più un argomento matematico bensì persino mistico e filosofico.
Fu questo uno dei primi punti di congiunzione tra matematica e filosofia, un punto essenziale per lo sviluppo di una cultura poliedrica, in cui personalmente credo fermamente. Pertanto ci occuperemo, in questo breve “appuntamento”, proprio di alcuni esempi di verità matematiche difficili da “digerire” persino per i filosofi più intraprendenti: i paradossi (a cui l’infinito si presta benissimo).
Il buon, vecchio, Zenone
Non possiamo che iniziarci a questo argomento con i celeberrimi paradossi descritti dal filosofo greco Zenone di Elea (489 a.C. – 431 a.C.): Achille e la tartaruga e il paradosso della freccia. In questi due “fattarelli” l’autore descrive un particolare aspetto dell’infinito, più tipico di Pitagora che non del pastore preistorico: l’infinitamente piccolo.
Nel paradosso di Achille e la tartaruga si immagina una gara podistica tra i due. Achille, piè veloce (e sicuramente anche galante), concede un vantaggio di qualche metro alla ben più sfortunata tartaruga. E la gara ha inizio. Achille non aveva però previsto che ogni volta che avrebbe raggiunto il punto in cui la tartaruga si fosse trovata poco prima, questa avrebbe nuovamente fatto qualche passo, e sicuramente non si sarebbe trovata più lì… e chi la prende più?
Come può essere possibile che l’uomo più veloce della storia sia stato battuto da una tartaruga? Potete dormire sogni tranquilli, Achille rimane il più veloce. Ma il nostro intuito ci ha giocato un brutto scherzo: ecco un esempio di come non sappiamo riconoscere l’infinito, non lo possediamo!
Uno sguardo al caro Galilei
E di paradossi sull’infinito se ne possono studiare davvero di curiosi. A dire il vero, non sono questi dei veri e propri paradossi matematici ma dei paradossi logici potremmo dire, o più chiaramente, sono delle osservazioni il cui senso effettivo sfugge al nostro intuito.
Coerentemente, nel XVII secolo Galileo Galilei (1564-1642) affermò:
“Queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente…”
Pur essendo Galileo noto ai più per le scoperte rivoluzionarie nell’ambito della fisica, non tutti sanno che egli fu anche un attento matematico. Infatti, nell’opera “Discorsi su due nuove scienze” (o nel suo titolo integrale “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica e i movimenti locali”) scrisse di matematica ed in particolare di due paradossi assai curiosi, per i quali uno dei suoi protagonisti affermerà in tono quasi d’ammonizione: “Orsù, già che si è messo mano a i paradossi”. Anche Galileo aveva ben chiaro che ciò di cui avrebbe seguito a trattare non era di facile comprensione.
Il primo di questi è anche noto come il paradosso dei quadrati.
Si consideri l’insieme dei numeri naturali (più comunemente indicati con la lettera maiuscola N), e se nei consideri il sottoinsieme dei quadrati perfetti. Creiamo un collegamento tra i due insiemi, un’associazione detta uno-a-uno che leghi ad ogni elemento dei numeri naturali uno ed un solo quadrato (un facile esempio di funzione biettiva, che studieremo con più attenzione). Galilei pensò di legare ad ogni numero naturale il suo quadrato. Pertanto, all’uno associamo sé stesso (che è un quadrato perfetto), al due il quattro, al tre il nove… e così via. Essendo questo un palese esempio di funzione biettiva, Galilei mise in luce la stranezza del risultato ottenuto: dire che esiste una corrispondenza uno-a-uno tra questi insiemi significa…che sono ugualmente grandi! Cioè che esistono tanti numeri naturali quanti quadrati perfetti, pur definendo questi ultimi un sottoinsieme proprio dei naturali.
Un confronto similare si può ottenere con il secondo paradosso: il paradosso della ruota.
Si immaginino due ruote concentriche (o semplicemente due circonferenze concentriche) e si immagini di farle scivolare lungo una linea retta. In ogni istante ad un punto della retta
corrispondono esattamente un punto nella ruota più grande ed uno nella ruota più piccola, fino ad aver compiuto un giro completo. Conclusione? Le due ruote (o circonferenze) hanno esattamente lo stesso numero di punti del segmento descritto dall’inizio al termine dello scorrimento lungo la retta. Ma ancora più paradossale è il fatto che le due ruote hanno entrambe lo stesso numero di punti del segmento e quindi…sono di ugual lunghezza.
Beh, forse David Hilbert aveva proprio ragione: “common sense is a very poor guide, when dealing with infinity”. Faremmo bene, allora, a convincerci ottimisticamente che la matematica non è null’altro che frutto della mente umana che, spesso, non è in grado di attraversare alcuni confini così facilmente come altri. Ma, in fondo, è davvero così?
Matematica, filosofia e infinito
E il saggio Galileo resta un punto chiave del nostro “appuntamento” anche perché egli stesso iniziò a considerare la filosofia e la matematica come facce di una stessa medaglia, forse spinto dal misticismo e della forte dose di logica filosofica necessaria a comprendere e trattare argomenti matematici delicati, proprio come l’infinito. Ne “Il Saggiatore” egli scrive:
“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.”
La portata rivoluzionaria di queste parole diviene ancora più rilevante se contestualizzata in un’epoca, quella dello scienziato, in cui la sola filosofia concepita era figlia di una religione spesso cieca e sicuramente non muta. Unire, quindi, in un’unica visione sia la matematica che la filosofia rende anche il nostro discorso ben più completo e la comprensione dei paradossi una molla che ci innalza verso domande più fini e profonde. Non dimentichiamoci, infatti, che la matematica vive e opera in un contesto, grazie a persone e ne plasma la cultura. Anche la cultura dell’infinito ha permesso, sicuramente in secoli meno buii di quello di Galileo, di liberare il modus vivendi dell’uomo da ogni convinzione e ci ha spinto a capire che la ragione va intesa più in fondo, al di là dell’intuito.
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