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Ecco la seconda parte del “racconto matematico”. Clicca qui per leggere la prima parte. La storia riparte dal punto in cui si era interrotta durante l’esame di una studentessa di questa immaginaria ma verosimile sessione d’esame.

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Di riflessione in riflessione sull’insegnare la matematica, il tempo era volato e una nuova  candidata aveva via via affrontato i vari commissari  fino ad arrivare fino a lui pronta per affrontare lo scoglio di matematica e fisica.  Ovviamente, essendo commissario interno,  conosceva benissimo la studentessa e sapeva che era la classica studentessa studiosa ma che, nel gergo dei suoi studenti, “buttava a memoria” tutto.

Fin da quando era al liceo non aveva mai capito questa categoria di persone che piuttosto che provare a capire, sceglievano l’illusoria scorciatoia di imparare a memoria. Questa tipologia di studenti, per sua esperienza, grazie anche alla loro grande volontà, rispondevano sempre perfettamente alle domande standard, quelle che avevi già posto, ma appena deviavi dalla strada maestra, chiedendo qualcosa di insolito, che necessitasse di un minimo di ragionamento, apriti cielo ne uscivano di stupidaggini.
In questi casi lui era sempre stato un signore. Non si metteva certo a mettere in difficoltà il candidato e gli proponeva le domande standard a cui era abituato, salvo poi cedere sempre e provare a farlo ragionare almeno una volta. Ma se vedeva che non andava, provvedeva lui stesso a far uscire dall’empasse il suo studente “memorizzatore”. In questo era corretto e i suoi studenti lo sapevano (o lo speravano).
Durante l’anno però non era così buono. Quando insegnava al biennio cercava sempre di far emergere le capacità dei “ragionatori” a discapito dei “memorizzatori” anche con trucchi banali, come il chiedere un teorema sostituendo le tradizionali lettere con cose strane. Dimostrami che dato un triangolo di lati “Pippo”, “Topolino” e “Pluto”… Alle classi piaceva, sorridevano sempre. Oppure ruotava la figura, posizionandola nella modalità più insolita. Niente di fantascientifico. Questa cosa la fanno quasi tutti gli insegnanti da tempo immemorabile, ma le buone idee è sempre un bene usarle.
Si ricordava di una delle sue prime classi. C’erano due ragazze che si chiamavano entrambe Rebecca. Erano molto brave a scuola ma la prima aveva il tallone d’Achille della matematica a causa della sindrome del “memorizzatore” e la seconda no.

Una volta le aveva interrogate casualmente insieme. Partenza a razzo di entrambe. Rispondono alle domande sulle definizioni di geometria e di algebra (erano al biennio) poi arriva il momento delle spiegazioni e la prima Rebecca, alla richiesta del terzo perchè, cade in un pianto a dirotto. Dopo qualche giorno la Rebecca “memorizzatrice” venne da lui a chiedere perchè avesse voluto metterla per forza in difficoltà. Non si capacitava del fatto che le chiedeva spiegazioni per capire il ragionamento, aggiungendo:

“Ma gli altri professori non lo fanno”.

Davide non si ricordava cosa le aveva risposto. Ovviamente avrebbe voluto rispondergli:

“Non è vero che non lo fanno. E comunque io non sono gli altri professori”.

Purtroppo però non era mai stato bravo con il botta e risposta e in genere le risposte buone gli venivano qualche giorno dopo, quando ormai erano inutili. Probabilmente cercò di dirle che in matematica ragionare era importante. Per tutta risposta aveva ottenuto il classico:

“Professore, io studio, ma di matematica non ci ho mai capito niente sin dalle elementari”.

In questi casi senti di combattere contro i mulini a vento. E’ difficile convincere del contrario una studentessa che ha questa certezza dalle elementari.
Alla fine anche quest’altro orale finì. Uscita la candidata, la commissione si riunì per decidere, non prima di aver consumato il caffe ordinato al bar della scuola e la torta portata dalla collega di scienze. Non è che la torta fosse buonissima, la collega era solita sperimentare queste cose alternative con germi di soia o cose simili, ma ovviamente visto che aveva passato del tempo a farla figurati se si lamentava.
Durante la pausa cercava di non chiacchierare con nessuno dei colleghi. Non era dell’umore. Nel frattempo, il collega di italiano e latino sproloquiava sulla sua ultimissima pubblicazione e sulle sue vacanze in Germania, non perdendo occasione di svilire la giovane collega che non conoscendo il tedesco non poteva capire fino in fondo i grandi filosofi tedeschi.
La pausa per fortuna finì quando si iniziava a scadere nei luoghi comuni. Non ne era sicuro, ma si ricordava che nei romanzi di Jane Austen, conosciuti grazie a sua moglie, la madre suggeriva alle figlie di non parlare se non si ha nulla di intelligente da dire e di limitarsi a parlare del tempo. Ecco un bel consiglio di cui si è persa l’abitudine.

Finita la pausa, entrato il candidato successivo, Davide ricominciava a riflettere. Ogni anno il principale dubbio che lo assaliva era sulla scelta di quanto spazio dare alle dimostrazioni durante  le spiegazioni. Sentiva sempre di più di colleghi che dimostravano poco o nulla e si concentravano sul fare esercizi. L’ultimo anno del liceo con lo scritto di matematica alle porte tutto diventa ancora peggio.
Si ricordava ancora di quell’anno in cui, durante il primo quadrimestre, era supplente di fisica in un quarto liceo scientifico e, alla sua affermazione:

“Probabilmente questo l’avrete dimostrato con la collega di matematica”,

si era sentito dire

“Guardi prof. che la prof.ssa Tizia non dimostra niente. Giusto fa dei cenni quando introduce le cose”.

Lì per lì aveva glissato. Per lui però era quasi inconcepibile.

Nella prima lezione di matematica di ogni sua classe apriva il libro “Apologia di unapologia_matematico_Hardy Matematico” e citava il brano in cui l’autore G. Hardy sostiene che niente è più duraturo della matematica. Gli imperi cadono, le lingue muoiono, ma i teoremi restano saldi in vita. Nelle prime lezioni Davide era solito dimostrare quelli che per Hardy erano degli esempi di “belle” dimostrazioni: l’esistenza di infiniti numeri primi e l’irrazionalita di radice di due.

Li trovava molto formativi perchè erano un esempio di dimostrazione per assurdo su temi come l’irrazionalità di un numero e l’infinità dei numeri primi che, proprio perchè argomenti ostici, volevano essere una sorta di pugno all’intelletto dei suoi giovani studenti. Era convinto che uno shock, la sensazione di stupore, di curiosità fosse alla base del desiderio di apprendere. Una espressione algebrica stupisce poco. Va fatta ma dopo, motivando.

Il giorno dopo aver scoperto che la collega di matematica non dimostrava nulla, durante l’ora di ricevimento si era confrontato con un’altra collega di matematica, donna piccola piccola, dai movimenti lenti lenti, che lo aveva rassicurato. Lei dimostrava tutto. Rimaneva in caso indietro con il programma (che poi non c’è più) ma dimostrava tutto. Si era tranquillizzato, anche se quel consiglio gli veniva dalla collega che non metteva più di 8 manco a sparare. Ma aveva capito che era brava perchè nonostante i suo 30 anni d’insegnamento ancora si metteva in discussione, aveva dei dubbi, faceva approfondimenti.

Aveva imparato a dubitare del collega (ma la cosa vale in generale) che non si metteva mai in discussione. Quello troppo sicuro di sé aveva capito che, in genere, faceva danni ai propri studenti. Aveva inoltre visto fin troppe “mummie” aggirarsi nei corridoi.

Davide chiamava così i colleghi, anche bravi, che però insegnavano allo stesso modo da sempre, che adottavano lo stesso libro da 20 anni, usano lo stesso quadernino logoro e sporco per dettare gli appunti. Lui così non lo sarebbe mai diventato, si era detto nei primi anni in cui insegnava. Sperava di riuscirci ma non se la sentiva di giudicare negativamente quelle persone. Alla fine con le classi erano corretti ed apprezzati. Sentiva però che avevano perso il fuoco o  forse quel fuoco glielo avevano fatto perdere.
A sentirli aveva notato che riprendevano vita quando raccontavano le peripezie dei primi anni di insegnamento (avranno all’epoca visto anche loro “mummie” e promesso a loro stessi di non diventare come loro?) e quando denunciavano la burocratizzazione della scuola, la presenza negativa di molte famiglie, la società che, bollandoli come falliti, toglie valore alla scuola. Davide comunque, per non saper né leggere né scrivere, cercava di proporre ogni anno qualcosa di nuovo e di diverso, quel qualcosa in più che fa bene agli studenti ma anche a chi insegna. Per carità non sempre aveva successo. Ma in ogni caso ne valeva la pena.

Intanto anche l’ultimo candidato era andato. Ora lo aspettava un lungo ed interminabile pomeriggio di burocrazia. Terminare i verbali (chissà perchè sempre lui finiva a fare il segretario con la scusa che era “giovane” e insegnava matematica), controllare le firme, trascrivere, fare tabelloni. Insomma un lavoraccio soprattutto per lui che era segretario.

Finalmente, nel tardissimo pomeriggio la commissione riusciva a chiudere il pacco. Anche quest’anno era riuscito a non litigare con gli altri commissari. Si chiudeva il pacco con spago e volendo pure con la cera lacca e si accedeva a “commissione web” per bloccare i risultati. Davide era convinto che la scuola italiana era sintetizzata da questi due gesti antitetici. Il pacco cartaceo con tutte le prove con il tocco di antico della cera lacca e la applicazione web su cui generare verbali e mettere voti per il tabellone finale. Era fermamente convinto che in quei due gesti così diversi tra loro fosse contenuta la sfida della futura scuola.
Alla fine di questa lunga giornata, Davide, insegnante ormai quarantenne, se ne tornava a casa ripetendo fra sé e sé:

“Il prossimo anno andrà meglio. Sarò un professore migliore, riuscirò a fare la differenza per i miei studenti, non solo per quelli che bravi già lo erano”.

E concludeva i suoi pensieri dicendo:

“Comunque il prossimo anno non mi  fregano più a fare il segretario”.

A settembre sarebbe tornato in classe e avrebbe incontrato nuovi e vecchi studenti.
Mentre era alle prese con questi pensieri ecco passare di nuovo un treno che, con il suo rumore ritmato, si porta via i pensieri di un docente di matematica che, come tanti altri, cerca di capire il tempo in cui è.

N.B.

Le persone citate nel racconto sono inventate. Anche  i fatti sono inventati ma verosimili e frutto della esperienza d’insegnamento di matematica e fisica dell’autore del racconto. Lo stesso autore   ci tiene però a far notare che in molte maturità ha avuto la fortuna di incontrare colleghi eccezionali con una profonda cultura e con i quali si è trovato benissimo e ha anche avuto la fortuna di “farsi una cultura” parlando di Resistenza, esistenzialismo, epistemologia, Leopardi, Kant, apocolocyntosis e quant’altro.

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