Sperimentiamo l’inserimento di questo “racconto matematico” a puntate. Prendetelo per quello che è: una storia inventata ma verosimile, in cui si racconta un esame di maturità aggiungendo a margine le riflessioni di un insegnante di matematica. Lo dedichiamo, in particolare, a tutte gli studenti e gli insegnanti che in questi giorni stanno facendo o hanno appena finito gli esami di maturità.
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La sensazione del gesso sulle dita delle mani, impalpabile, morbido. Una lavagna piena di simboli e formule. Gli occhi accesi di qualche suo studente che ha capito, ha intuito, ha anticipato quello che stava per dimostrare, il metodo alternativo per risolvere un problema, l’idea diversa che semplifica il tutto.
Se avessero chiesto a Davide, insegnante di matematica da ormai 10 anni, di riassumere la sua professione probabilmente avrebbe risposto così. O forse non avrebbe risposto affatto.
Oggi, infatti, non era molto in giornata. Era seduto in commissione d’esame, una delle tante commissioni d’esame di un liceo scientifico d’Italia, ma avrebbe tanto voluto essere altrove. Ogni tanto c’era il fastidio del treno che passava perchè quella scuola era stata costruita vicino alla stazione. Più spesso c’era il fastidio del caldo appiccicaticcio che diventava maggiore nel vedere gli studenti completamente fradici che provavano a rispondere con alterni successi alla domanda che, a turno, i commissari ponevano.
L’insieme di tutto questo avrebbe comportato che, se gli avessero chiesto di sintetizzare il suo lavoro in quel momento, probabilmente avrebbe risposto con frasi molto meno poetiche.
Per lui gli esami erano tempo di riflessione. Opportunità per fermarsi a riflettere sul suo insegnare matematica e fisica nella scuola, sui suoi errori, sulle difficoltà dei suoi alunni nell’affrontare la prova d’esame.
Aveva sbagliato? Qualcosa molto probabilmente sì. Certo che i suoi studenti potevano pure studiare di più. Meno male che c’erano in classe quei due o tre che lo scritto l’avevano svolto bene…davvero bene. Altri si erano difesi.
Rifletteva in questo modo nella sua testa mentre era la volta della commissaria di inglese che chiedeva, per l’ennesima volta, al malcapitato di turno del flusso di coscienza di Joyce, del monologo di Molly Bloom.
Ogni anno si stupiva sempre di come fosse possibile che gli studenti non sempre sapessero le risposte dopo i primi giorni di interrogazioni. Le domande si ripetevano. Ma quando sei dall’altra parte del tavolo sembra tutto facile. Anche lui, quando si era preparato all’esame, aveva trovato tutto abbastanza difficile e sempre diverse le domande che gli ponevano.
Non era in giornata perchè era già il secondo candidato che veniva esaminato ad essere andato davvero bene in matematica e fisica ma la commissione non ne aveva tenuto conto come meritava. Era arrivato ormai alla sua settima, no forse ottava (…non si ricordava, non le contava più) maturità e ogni tanto aveva incontrato quelle commissioni a predominanza umanistica, che lo facevano alterare non poco e maledire l’intera categoria di insegnanti.
Per carità, lui stesso difendeva a spada tratta la suddetta categoria, specie quando sentiva il qualunquismo della gente che sfoderava i soliti luoghi comuni contro la sua vituperata professione (non fate niente, avete tre mesi di ferie, solo chi non sa fare insegna). Ma quando arrivavano quelle commissioni lì, in cui convergeva il peggio della classe docente italiana, quasi gli avrebbe dato ragione a quei qualunquisti. In questi casi gli veniva in mente la frase che Nanni Moretti nel suo film Bianca che diceva:
“Continuiamo così. Facciamoci del male”.
Ecco, pareva proprio che quella commissione avrebbe continuato a far del male alla classe docente.
C’era il presidente che, mentre gli studenti rispondevano, scriveva non so quale circolare per la sua scuola, la commissaria di inglese prossima alla pensione, il cui unico pensiero era quello di sbrigarsi perchè doveva andare a prendere i nipoti; il barbuto commissario di italiano e latino che poneva domande lunghe tre minuti, in cui sfoggiava la sua cultura gonfiata più dal suo ego smisurato che dalla sua reale conoscenza delle cose.
Per finire c’era la commissaria, supplente di filosofia e storia, timida, insicura e preparatissima ma completamente succube del barbuto, che la blandiva e al tempo stesso la sviliva.
Questi erano gli esterni. Poi c’erano gli interni: quest’anno era il turno di matematica e fisica, arte e scienze che stavano lì a vedere, quasi come in un romanzo verista, le alterne sorti dei propri studenti.
Questo abbinamento, voluto dal fato o più probabilmente da una combinazione casuale di domande territoriali dei docenti e la mano stanca del dipendente del provveditorato, aveva generato una commissione in cui il conoscere la matematica, la fisica o le scienze contava poco o nulla.
La cosa che lo faceva arrabbiare era che si percepiva a pelle che, per quei commissari, la matematica e le altre materie affini non facevano parte della cultura. Era un sapere tecnico da persone dalla mentalità chiusa, non abituate a spaziare fra le pieghe del sapere. Anzi, lo studente ignorante di matematica generava quasi simpatia (memori forse della loro stessa probabile ignoranza) perchè non sapere il concetto di derivata era molto meno importante del sapere che nel canto tal dei tali Dante parla dell’ordine dei francescani.
Ma l’assurdo lo si era toccato quando il migliore in matematica, compito praticamente perfetto, nonostante che quest’anno era uscita una annata tosta specie il primo problema, aveva osato esprimere una opinione che contraddiceva il collega di italiano e latino.
Questi infatti, sentita l’obiezione dello studente (espressa per la verità in modo argomentato ed educato) si era prima grattato la barba, quasi un gesto istintivo di difesa, e poi era passato all’attacco esponendo lo studente ad una sequenza di domande che manco filosofi come Lacan o Foucault dei tempi d’oro avrebbero potuto fare di meglio in quanto a complessità.
Si era fermato solo quando lo studente aveva iniziato a tentennare. Allora, con gesto fintamente buonista, alzando un po’ il tono di voce (in modo che il presidente interrompesse per un attimo la scrittura della circolare per la sua scuola e la collega di inglese la smettesse di navigare su Facebook), nel mentre che si puliva gli occhiali, esprimeva al ragazzo l’invito ad approfondire con meno superficialità quegli aspetti così fondamentali del programma che richiedevano un impegno maggiore rispetto a quelle due o tre formuline sul teorema di Pitagora che aveva dimostrato di sapere.
Qui era stato il colpo di genio e di scorrettezza del collega: svilire in un sol colpo lo studente e la sua preparazione in matematica, materia arida e superficiale che si presta bene alle menti poco profonde e meramente calcolatrici attirandosi la solidarietà degli altri commissari, anche loro con non pochi pregiudizi contro le materie scientifiche.
Uscito il candidato, il confronto era stato aspro, Davide l’aveva combattuto per principio, sapendo che quella battaglia era persa. Il suo migliore si era giocato il 100, scontrandosi con l’esterno di italiano e latino che si era portato con sè la collega di filosofia succube e la collega di inglese che aveva barattato il suo appoggio in cambio della promessa da parte del collega di italiano di fare orali più brevi (sempre i nipoti incombenti…)
Davide più andava avanti più non capiva come mai la visione della matematica nella societa italiana era talmente ristretta dal contenere solo cose come tabelline, teorema di Pitagora, proporzioni e poco altro. Quelle sono tutte cose che si fanno alle medie.
Ma questa gente, poi, come ha fatto a rimuovere quanto appreso durante la scuola superiore?
Caricando su di sé responsabilità non sue, bensì dell’intera categoria dei docenti di matematica, Davide si interrogava sempre su dove si stesse sbagliando. La cosa non era semplice anche perchè lui di insegnanti bravi ne aveva incontrati, eccome. Alle medie c’era stato Iacobucci, i suoi esperimenti di fisica, i suoi problemi di matematica sempre diversi ed interessanti, le prime semplici dimostrazioni di geometria, la programmazione in Basic impostata in moda da capire la logica e l’idea di algoritmo.
Ripensandoci un attimo si ricordava che quello che per lui era stato un grande insegnante, per il suo compagno di banco (ora noto avvocato) era stato la fonte degli incubi notturni più terribili.
Alle superiori c’era stato l’arcigno Quadrai che era rigorosissimo, metteva al massimo 7 e quel voto era un miracolo. Si ricordava ancora quei teoremi di geometria del biennio spiegati con signorilità e lo sguardo che fulminava chi solo provava a distrarsi.
Se una cosa aveva capito chiaramente in questi anni era che insegnare matematica era davvero difficile. C’erano tante strade possibili da intraprendere, ma nessuna era facile.
La prima idea che gli piaceva era l’idea della matematica per il cittadino. Era convinto che doveva insistere di più su questo aspetto. Aver chiaro e far capire ai propri studenti che, a prescindere da quello che farai nella vita, ci sono idee, strumenti, concetti della matematica che sono ormai connaturati con la società e necessari per una appartenenza consapevole e attiva alla vita sociale.
L’altra idea era quella di abbandonare il vecchio approccio che metteva al centro l’algebra bruta fatta di calcoli su calcoli, passaggi su passaggi. Era però convinto che il rischio era quello di buttare il bambino con l’acqua sporca. Perchè la capacità di concentrarsi e svolgere un elevato numero di passaggi senza errori è sicuramente utile, specie in tempi di aumento di studenti distratti e ritenuti svogliati (ma poi in fondo non lo eravamo anche noi distratti e svogliati?)
L’altro aspetto su cui, forse, puntare erano le nuove tecnologie. Ma no, non seguendo il falso mito che i nativi digitali siano più bravi a prescindere. Certo sono più bravi dell’insegnante che non è in grado di accendere manco il computer. Ma a parte questo, purtroppo, non hanno la minima idea di cosa ci sia dietro e dentro uno smartphone, un tablet o un computer.
Usano abilmente questi strumenti ma nella modalità scimmiesca che è facilitata dall’utilizzo delle interfacce grafiche in cui l’utente, da buon cane di Pavlov, prova a cliccare e ottiene il biscottino se riesce a fare quello che cercava. Insegnare le nuove tecnologie significa insegnare a ragionare su come funziona un dispositivo, sul suo hardware, sul suo software, su come questi si parlano attraverso una sequenza di 1 e di 0.
Qui torna in campo la matematica ed è solo quando questa entra in gioco che c’è anche la comprensione profonda. Un diagramma di flusso, la logica di if, else, and, or, il realizzare un algoritmo, capire come aprire il file di input binario o testuale, il rigore formale di un linguaggio ed un compilatore/interprete che non te ne fa passare una finché non sei preciso.
Ma anche sapere che un cellulare ha dei sensori e imparare a registrare e estrarre le misure raccolte costruendo in poco tempo un laboratorio portatile ed una quantità di dati che Galileo e Newton, fossero vivi oggi, chissà cosa ci farebbero. E tutto questo è ignorato dagli studenti, nonostante ci sia la gara a comprare l’ultimo modello dotato di nuovi sensori che poi non usano.
In un racconto di fantascienza di Asimov, si narra di un futuro in cui l’umanità, sempre in guerra, ha affidato tutto ai computer. In particolare l’uomo ha completamente dimenticato come si facevano anche i più semplici calcoli come 5+7. In questa società, un giovane soldato riferisce ai suoi superiori di essere in grado di fare da solo l’operazione di somma riuscendo ad ottenere ogni volta lo stesso numero fornito dal computer. Ora Davide non si ricordava esattamente la trama, cosa succedeva al soldato, con chi e perchè l’umanità fosse sempre in guerra. Non era neanche necessario secondo lui. Citava il racconto ogni volta che voleva far capire ai suoi studenti quanto fosse importante usare la tecnologia ma, al contempo, sapere cosa c’è dietro ed esserne autonomi.
Devi saper fare i calcoli. A lui non avevano insegnato l’algoritmo delle radici e ogni volta incentivava i suoi studenti a studiarselo altrimenti, come nella storia di Asimov, sarebbero rimasti schiavi di un oggetto. Al contempo, però, solo un cretino si mette a perdere tempo a calcolare “51748 x 2345” avendo sotto mano una calcolatrice.
Sapeva che non tutti i suoi studenti sarebbero diventati fisici, matematici, ingegneri, statistici (o quant’altro). In ogni caso ci teneva che i suoi alunni si facessero le domande.
Come funziona internet? Come fanno 10000 persone a parlare nella stessa piazza con il cellulare? Perché se tocco con il dito quello schermo succede qualcosa? Che vuol dire che whatsapp ha introdotto una crittografia end to end?
Poi c’era l’idea di aumentare i problemi di matematica applicata alla realtà. Però li avrebbe voluti fare veri, non artificiosamente costruiti come erano stati proposti ultimamente in alcuni casi. A quel punto è molto meglio il classico problema astratto della tradizione dell’insegnamento italiano. Puro e astratto.
Si ricordava ancora quando, a partire dal liceo, aveva provato quella strana ebrezza che si ha quando si risolve un problema. La penna sul foglio che fa dei segni veloci. La mano leggermente sudata. Lo sguardo attento, non quello degli occhi ma quello della mente che guarda il foglio e cerca di prevedere i passaggi. Il desiderio di fare in fretta i passaggi per capire se è la strada giusta. La rassicurazione, che capita solo nei problemi artificiosamente pensati di un libro di scuola, del calcolo troppo più semplice per poter essere sbagliato. Poi il senso di appagamento che si prova istantaneamente quando il risultato scritto sul quaderno coincide con quello del libro e uno strano senso di potenza. Non una potenza violenta che vuole far male agli altri, una potenza diversa, che ti porta in alto senza recare danno a nessuno.
………….
(Clicca qui per leggere la seconda parte su “Math is in the Air”)
N.B.
Le persone citate nel racconto sono inventate. Anche i fatti sono inventati ma verosimili e frutto della esperienza d’insegnamento di matematica e fisica dell’autore del racconto. Lo stesso autore ci tiene però a far notare che in molte maturità ha avuto la fortuna di incontrare colleghi eccezionali con una profonda cultura e con i quali si è trovato benissimo e ha anche avuto la fortuna di “farsi una cultura” parlando di Resistenza, esistenzialismo, epistemologia, Leopardi, Kant, apocolocyntosis e quant’altro.
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