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Foto dei “Rudi Mathematici”

Continuano le interviste/recensioni di “Math is in the Air” con l’obiettivo di suggerire ai nostri lettori libri di divulgazione che riteniamo validi.

Questa volta tocca ai Rudi Mathematici (al secolo Rodolofo Clerico, Piero Fabbri e Francesca Ortenzio) con il loro libro “Storie che contano. Problemi immaginari per matematici reali”.

Li abbiamo intervistati per voi e le risposte che hanno dato sono davvero imperdibili. Ritroverete infatti lo stile che caratterizza questo trio di divulgatori che ha iniziato nel 1999 con il pubblicare la  e-zine “Rudi Mathematici” e ha proseguito tenendo dal 2008 una rubrica mensile dedicata alla matematica sulla rivista “Le Scienze”

Ora vi lasciamo  all’intervista senza dimenticare di  segnalarvi che che il libro è disponibile, per esempio,  qui e qui.


 PREMESSA (dell'intervistatore)

Prima di iniziare questa intervista vorrei fare una piccola premessa personale sul vostro 74 - Impey_Stesa_B2libro. La prima cosa che si osserva, anche solo dopo aver letto poche pagine, è che il vostro testo non è un “normale” libro di divulgazione. L’impressione è che sia una raccolta di racconti legati fra loro dalla passione per la matematica, filo comune che lega queste storie sparse nello spazio-tempo.

Per questo motivo il libro può essere letto con interesse sia dagli appassionati di storia della matematica, sia dai patiti di “giochi matematici”, sia, infine, dai lettori a cui piacciono racconti “puri”.

Sperando che anche voi autori concordiate con questa premessa, iniziamo quindi l’intervista cercando di non svelare troppo del vostro testo ed evitando accuratamente di accennare ai problemi matematici proposti nel testo (e subito dopo risolti da voi) che lasciamo alla curiosità del lettore che deciderà di comprare la vostra opera.

Due parole allora anche da parte nostra, prima di iniziare: parole che servono soprattutto a confermare l’impressione. Sì, e ne parleremo probabilmente anche all’interno delle risposte dell’intervista: l’intenzione – e la preoccupazione – che ha permeato il libro è stata certo anche quella di scrivere qualcosa che riproducesse lo spirito di RM, e da sempre lo spirito di RM è quello di mostrare la matematica come qualcosa di divertente e di raccontabile: la cosa difficile era piuttosto unire quanto in RM è normalmente separato (le narrazioni storiche e i problemi veri e propri) e che nel libro, anzi in ogni racconto, doveva per necessità coagularsi in un solo testo. E la preoccupazione discendeva dal fatto che l’e-zine lascia quanto meno un grado di libertà, che consiste nel fatto banale che il lettore attratto dai problemi può saltare la parte narrativa, mentre il lettore affezionato ai “compleanni” può evitare di soffermarsi sui problemi: in “Storie che contano” questa libertà è negata, e la paura è quella di scontentare tutti, anziché – come ovviamente speriamo – di divertire tutti. Comunque, per sicurezza, all’intervista abbiamo deciso di rispondere “con una sola voce”, così almeno possiamo equamente suddividerci le critiche…

PARTE 1 (ovvero finalmente le domande e relative risposte!!)

Fatte queste premesse possiamo iniziare, quindi, con le domande:

– Per prima cosa vi chiediamo come è nata l’idea di scrivere un libro di racconti in cui siano inseriti in modo del tutto naturale dei problemi matematici?

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Logo e-zine Rudi Mathematici

I problemi vengono per primi, e confesseremo apertamente che ciò dipende dal fatto che ci è stato esplicitamente richiesto “un libro di problemi matematici abbastanza difficili”. Il mandato era in fondo semplice e chiaro, ma noi abbiamo fatto di tutto per complicarci la vita: ci siamo chiesti a lungo come organizzare un libro di problemi matematici, e soprattutto come “dematematizzarlo”, insomma come ambientare i problemi, con quali personaggi, in quale contesto. Nella nostra rubrica su “Le Scienze” i protagonisti sono delle specie di avatar di noi tre (e oggettivamente avatar un po’ troppo piattamente caratterizzati; ma del resto il loro compito è solo quello di introdurre un problema); in un libro precedente (Rudi Ludi) i protagonisti siamo esplicitamente noi tre, e non è che la cosa migliorasse di molto. Ci è sembrato eccessivo continuare con questa smania di protagonismo, e poi volevamo in qualche modo poter salvare le caratteristiche dell’e-zine in cui, oltre ai problemi di matematica, parliamo anche dei matematici in carne e ossa. Mettere insieme dei problemi, delle soluzioni e delle biografie di matematici in modo che tutto restasse leggibile sembrava impossibile ad almeno due di noi, finché il terzo (Rudy, tanto per non fare nomi) non ha proposto di usare i matematici stessi come protagonisti sia delle narrazioni, sia dei problemi. Gli altri due gli hanno detto che era completamente pazzo (lo avevano già fatto nel 1999, quando se ne uscì con l’idea di fondare una e-zine di giochi matematici), osservando scandalizzati che i problemi tecnici per tenere tutto insieme, matematica-storia-narrazione-problema-soluzione erano decisamente troppi (e soprattutto l’idea implicava necessariamente di inserire un elemento di “fiction” – appunto un racconto – per potere coniugare la storia della matematica coi problemi), e avevano indubbiamente ragione. Però, insomma… il libro è venuto fuori proprio così.

– Il primo capitolo parte con una citazione di Borges sulla Persia dell’XI secolo e con una storia di una speciale carovana. Vorreste dire ai nostri lettori che c’entra in tutto questo la matematica e quali figure raccontate?

La matematica c’entra sempre. Noi da diciotto anni ripetiamo, almeno un paio di volte all’anno, che “la matematica è dappertutto”; in rete c’è anche uno splendido sito che ribadisce il concetto con più stile e precisione, asserendo che “la Matematica è nell’Aria” (ve lo consigliamo caldamente, nel caso non lo conosciate). Non dovrebbe stupire più di tanto, di conseguenza, veder saltare fuori la matematica anche nei dintorni di Nahavand, nel bel mezzo di quello che noi chiamiamo Medioevo.

In realtà, è stato come al solito il problema stesso a indirizzarci sull’ambientazione di massima: serviva un’aiuola circolare, e nonostante abbondino anche nei parchi cittadini, è tornata alla mente l’immagine aerea di campi irrigati “circolarmente” nel bel mezzo del Sahara, che spiccavano come verdi cerchi perfetti nel giallo delle dune. Cerchio nel deserto, matematica araba: il passo è breve; e comunque, un libro che abbia anche solo un minimo di intenzione di coniugare la matematica con le arti umanistiche, quali la pittura, la letteratura e la poesia, non può davvero esimersi dall’eleggere come araldo Omar Khayyām, che è stato sì grandissimo poeta, ma matematico altrettanto grande.

Poi, nel cercare una storia che gli si addicesse, abbiamo avuto la fortuna di trovare poche righe di Jorge Luis Borges (ma poche righe di Borges valgono quanto interi tomi di scrittori normali) in cui si accenna ad uno strano patto tra i tre personaggi più celebri della cultura araba di quel periodo: Khayyām, appunto; il gran visir Nizam-al-Mulk, che era forse l’uomo più potente e saggio del suo tempo; e il Vecchio della Montagna, il capo della Setta degli Assassini. Era una traccia troppo affascinante per non provare (pur con tutta la modestia e il timore del caso) a non elaborarla. E l’atmosfera un po’ fiabesca della Persia di quei tempi ha reso, tutto sommato, non troppo complicato far scivolare tra le dune dell’altopiano iranico anche il problema prescelto.

– Chi fra di voi ha avuto questa idea di partire dal mondo arabo che è probabilmente meno conosciuto ai lettori rispetto ad altre possibili “ambientazioni” (per esempio il mondo della Grecia classica)?

Premessa: non garantiamo di rispondere in maniera soddisfacente a domande che contengano l’interrogativo “chi di voi…”; Rudi Mathematici è un gruppo estremamente compatto, e la compattezza è data soprattutto dal fatto che ognuno di noi si riserva di poter dare la colpa agli altri due qualora saltasse fuori qualche magagna. In questo caso particolare, comunque, la risposta non è difficile, perché in realtà non c’è stata una vera e propria “scelta” di aprire il libro con il mondo arabo. Gli otto racconti non sono stati scritti nell’ordine in cui sono presentati nel libro, ma per ognuno di essi è stata determinata con accuratezza la data di “presunto avvenimento”. Quando si è trattato infine di decidere l’ordine di presentazione dei racconti, dopo alcuni dubbi e tentennamenti, si è deciso di sistemarli semplicemente seguendo l’ordine cronologico delle date di ambientazione. È stato solo allora che ci siamo resi conto che “Mezzaluna calante” era quello che avrebbe avuto l’onore e l’onere di aprire il libro. La Grecia classica sarebbe stata certo una splendida candidata per il primo racconto, se non fosse che non ci è venuto di ambientare nessun problema nello studiolo alessandrino di Euclide o nell’Accademia di Platone.

– Nella prime pagine del secondo racconto, in cui si intrecciano i percorsi di un anziano Leonardo da Vinci con quelli di Albrecht Dürer e della fantesca Maturina, mettete in bocca a Leonardo la seguente frase “Chi guarda spesso non vede”. Che volevate far dire a Leonardo con questa frase?

Pensate che anche oggi “si guardi spesso” ma “non si veda” la realtà e la matematica/fisica che c’è dietro?

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Ritratto di Leonardo da Vinci protagonista del secondo racconto del libro

A dire il vero, crediamo che sia un atteggiamento del tutto comune in ogni tempo e luogo, e non solo per quanto riguarda il sostrato matematico o fisico dell’oggetto che si guarda. Non perché si sia particolarmente pessimisti nelle capacità dell’Uomo, ci mancherebbe: ma perché esistono inevitabilmente gradi diversi di consapevolezza e conoscenza.

Un tempo gli studenti delle medie inferiori avevano la materia “Osservazioni Scientifiche”, che era certo tra le più belle di quel ciclo di studi, e che era marchiata da quest’ulteriore bel verbo, “osservare”, che in qualche modo riunisce e mette pace tra “guardare” e “vedere”. Del resto, il fatto che esistano verbi diversi, in tutte le lingue, per distinguere le azioni sensoriali (guardare, ascoltare) dalla elaborazione significativa delle stesse azioni (vedere, sentire) non è certo un caso. A dire il vero, la successione guardare-vedere (o ascoltare-sentire) ci sembra sia solo la parte iniziale di un processo con passi ulteriori, che potrebbero essere quelli di “capire” e poi “prevedere”. In un gruppo di persone che guardano, solo alcuni – per merito, per grado di attenzione, per propensione naturale o altro ancora – riescono a “vedere” quel che stanno guardando; ma solo un ulteriore sottoinsieme di questi può giungere effettivamente a “capire” quel che stanno guardando e vedendo. Per quanto riguarda l’indagine del mondo, ci sembra di poter dire che questo sottoinsieme sia quello dei ricercatori, degli scienziati, almeno se si specifica, per quanto riguarda l’azione del capire, la precisazione di “capire per primi”. Il passo ulteriore, quello di “prevedere”, presuppone una capacità di comprensione ancora più elevata ed estrema, riservata ai grandi costruttori di teorie verificabili. Insomma, ai geni.

– Sempre in questo secondo racconto inserite una interessante interpretazione della Gioconda (a riprova che questo libro non parla “solo” di matematica!). Senza svelare troppo la cosa ai nostri lettori, potreste anticipare qualcosa?

“Gioconda” e “Monna Lisa” sono universalmente considerati dei sinonimi: tradizionalmente, la signora ritratta nel quadro più famoso del mondo è madonna (o “monna”, appunto) Lisa Gherardini, detta anche “Gioconda” perché andata in sposa al ricco mercante di sete e tessuti Francesco di Bartolomeo di Zanobi del Giocondo. La maggioranza degli storici dell’arte ritengono ancora che il ritratto sia stato una sorta di dono di nozze di Francesco per la sua giovane sposa. La maggior parte, ma non tutti: c’è chi trova strano il fatto che una sposa non sorrida più apertamente, che una dama ricca non mostri gioielli, che la sposa di un mercante di sete sia vestita di scuro; e sulla base di questi indizi e soprattutto di minuziose ricerche, giunge a conclusioni diverse sull’identità della donna più famosa del Louvre. Accettiamo il consiglio di non svelare altro; ci limitiamo solo ad aggiungere che il racconto si intitolo “Lettere per i figli” non certo a caso.

– Che cosa è un “cubo iperuranico” che ha spaventato Leonardo tanto da fargli pensare di “scendere in un pozzo senza fondo”?

Forse far intuire a Leonardo e a Dürer l’esistenza di una quarta dimensione spaziale è una libertà eccessiva che ci siamo presi, ma è certo vero che la mente del vinciano è stata una delle più penetranti tra quelle prodotte dalla specie Homo sapiens; ed è anche probabile che, studiando la prospettiva, Leonardo sarà stato certo interessato e incuriosito dalle tecniche matematiche che gli consentivano di riprodurre magistralmente in due dimensioni soggetti e paesaggi che di dimensioni ne hanno indubbiamente tre. Quindi, ipotizzare che lui potesse immaginare il mondo tridimensionale come una sorta di “dipinto”, una proiezione di un universo quadrimensionale, non è poi così impossibile. Ma mettergli in bocca il termine “ipercubo” (per non parlare di “tesseratte”) ci pareva davvero eccessivo, e così abbiamo ritenuto che avrebbe forse preferito la dizione “cubo iperuranico”. Ma non sappiamo proprio se lui sia d’accordo, adesso che nell’iperuranio ci abita da qualche secolo…

– Il terzo racconto, se fosse stato letto da Arthur Conan Doyle, probabilmente avrebbe comportato la mancata ideazione del grande Sherlock Holmes. C’è infatti un Newton alle prese con l’investigazione e con l’uso del metodo scientifico associato all’analisi matematica da lui stesso inventata talmente bravo da oscurare quasi il grande Sherlock. Come vi è venuta l’idea di Newton investigatore?

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Nel terzo racconto il protagonista è Newton, ma a leggere la storia sembra uno antesignano di Sherlock Holmes (immagine tratta da qui)

C’è una cosa che probabilmente tutti i veri scrittori sanno per istinto, ma che noi, narratori dilettanti, abbiamo scoperto solo col tempo, e con l’esercizio ripetuto a cui ci costringe mensilmente la scrittura dell’e-zine: e cioè che una storia, un racconto, in gran parte si scrive da solo. E’ uno strano meccanismo che ricorda un po’ anche le meraviglie della Meccanica Quantistica: l’equazione di Schrödinger sembra a prima vista un’equazione d’onda quasi normale, “classica”, in un certo senso: poi si introducono dei vincoli, e tutta la sua peculiarità quantistica esplode e rivoluziona la natura delle particelle elementari.

Un racconto, a sua volta, impone dei vincoli a chi scrive: ma assai spesso, anziché essere d’ostacolo, si rivelano alla lunga dei vantaggi, perché forniscono una sorta di binario da seguire e rivelano possibilità inizialmente inaspettate.

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Altra copertina del libro “Storie che contano” uscito in allegato con “Le Scienze”

Nel caso specifico del racconto su Newton, è stato il problema prescelto a fare quasi tutto il lavoro: confessiamo che è stato scelto per ragioni affettive e “storiche”, perché si tratta della rielaborazione del primo problema pubblicato sulla rivista che richiedesse la risoluzione di un’equazione differenziale, con la variabile tempo a farla da padrona. Dalle equazioni differenziali all’analisi matematica il passo è brevissimo, e il passo successivo che porta dal calcolo a Newton è – se ci è concessa la boutade – semplicemente infinitesimale. Era quasi impossibile scegliere un altro protagonista per il racconto, a parte Leibniz, e ci siamo divertiti un bel po’ nel costringere l’inglese a risolvere il problema con la notazione del tedesco, che aborriva. Forse per questo il povero Isaac ne esce con un ritratto un po’ impietoso e antipatico: ma sospettiamo che, per quanto assolutamente geniale, un po’ antipatico lo fosse davvero. E comunque, c’è almeno uno di noi tre che non riesce ad immaginare un investigatore che non fumi la pipa, e per questo restiamo assolutamente grati a Conan Doyle per aver inventato Sherlock Holmes: lord Isaac non avrebbe lo stesso fascino, con una pipa di schiuma in bocca (come si può constatare direttamente su una delle due copertine del libro).

– Anche in questo caso potete anticipare che c’entrano un birraio orologiaio e il filosofo empirista George Berkeley?

Anche Berkeley è stata una scelta quasi obbligata, visto che una delle intenzioni del libro è quella di seminare qualche pillola di storia della matematica, e la critica dell’irlandese al concetto di infinitesimo è una pietra miliare nella storia dell’analisi. La forte differenza di età tra i due protagonisti del racconto ha in qualche modo forzato l’invenzione di uno strano rapporto tutt’altro che paritetico tra gli ipotetici Newton-Sherlock e Berkeley-Watson, ma il ragazzino riesce a cavarsela lo stesso. Il birraio orologiaio, invece, è un’altra riprova del fatto che i vincoli aiutano a scrivere i racconti: è virtualmente impossibile scrivere di un problema che richiede la determinazione di una ben precisa ora se non esistono orologi parimenti precisi, ed eravamo terrorizzati dal ricordo che Galileo (che è quasi contemporaneo a Newton, essendo morto nell’anno in cui l’inglese viene al mondo) misurava il tempo dei suoi esperimenti ancora con approssimativi orologi ad acqua. Ma cercando un po’ nella storia dei primi orologi meccanici abbiamo incontrato Daniel Quare, che poteva davvero aver incontrato Newton. Certo, lo abbiamo poi costretto a diventare il tenutario di una losca taverna della City londinese, ma questa è una libertà che abbiamo ritenuto legittimo poterci prendere.

– Del quarto racconto, invece, colpisce l’idea dell’ambientazione italiana e la scelta di parlare di Ada Lovelace e Charles Babbage.Cosa volete anticipare di questo racconto ai nostri lettori?

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Immagine rappresentante Ada Lovelace (fonte James Dyson Foundation)

Tra i molti “obiettivi segreti” del libro c’era anche l’idea di scrivere racconti di tipo diverso: se quello con protagonista Newton è una specie di giallo, se altri sono ambientati in periodi di guerra, ci pareva divertente provare a scrivere una “quasi storia d’amore”; è possibile che, per colpa dell’epoca o della scarsa capacità degli autori, il risultato sia un po’ troppo alla Carolina Invernizio, ma in qualche modo il vincolo è stato rispettato. Un altro obiettivo segreto che permea tutto il libro era quello di variare tempi, luoghi e nazionalità dei protagonisti dei racconti (quest’ultimo forse almeno parzialmente mancato: la Francia è una fucina di matematici, e noi l’abbiamo vergognosamente trascurata), e naturalmente anche il genere, il sesso dei personaggi. Ada Lovelace non è la sola donna protagonista delle nostre storie, ma riveste un ruolo cruciale anche come ponte fra le “due culture”, essendo stata scienziata, pioniera dell’informatica e figlia di uno dei più grandi poeti di lingua inglese. E poi, inutile negarlo, volevamo anche un po’ rendere omaggio a Torino, la città di RM (a dirla tutta, questo vincolo che ci siamo messi da soli è stato uno dei più solidi e rigorosi di tutto il libro, al punto che nelle varie stesure del racconto abbiamo cambiato problema, protagonisti e trama, ma non la città d’ambientazione). Infine, ci piaceva far scoprire ai lettori che ancora non lo sanno (e forse sono la maggioranza) che nella storia della matematica un posto di tutto rispetto è riservato ad un Presidente del Consiglio italiano.

– Avete “discusso” a lungo per caratterizzare il personaggio femminile di Ada o questo è frutto della mano di uno di voi in particolare?

In realtà, Augusta Ada Byron King, contessa di Lovelace, è un personaggio così originale e intrigante per conto suo che il problema non è stato tanto quello di caratterizzarla per esaltarne alcuni aspetti, quanto quello di cercare di ridurne alcune caratteristiche, per evitare il rischio che il lettore pensasse che fosse un personaggio di fantasia. È stata davvero una donna straordinaria, non solo come scienziata, ma anche come icona di indipendenza e libertà; per questo ci siamo presi una delle licenze più sfacciate dal punto di vista storico, facendola partecipare alla grande Riunione degli Scienziati di Torino del 1840, anche se è virtualmente certo che lei non fosse presente. E no, la sua caratterizzazione non è frutto di uno di noi in particolare, anche se è indubbio che uno dei tre terzi di RM è femmina, e ci tiene molto alla rappresentanza del suo sesso nelle opere del gruppo. Se mai accadrà che il libro abbia successo al punto da rendere possibile l’idea di un secondo volume, assai difficilmente potremo lasciare in pace Sofja Kovalewskaya e Ipazia. Gaetana Agnesi invece non ci parla più, da quando su “Le Scienze” l’abbiamo trasformata in una gatta nera.

– Anche il successivo racconto ha fra i protagonisti una donna. In questo caso si parla di Emmy Nöther. Potreste ricordare ai nostri lettori quale è stato secondo voi il contributo fondamentale di Nöther alla matematica?

I nostri lettori talvolta rimangono stupefatti (alcuni persino un po’ scandalizzati) quando scoprono che nessuno dei tre componenti di Rudi Mathematici è un vero matematico. Per formazione, siamo due fisici e un’ingegnere (l’apostrofo non è un errore, è voluto e significativo). A meno che la fisica non sia cambiata troppo dai tempi in cui la studiavamo all’università, possiamo assicurare che i veri punti di riferimento, le pietre miliari della formazione di un fisico non sono tanto le grandi teorie, come la Relatività o la Meccanica Quantistica; sono i grandi Principi di Conservazione. Stanno lì, come un faro che illumina lo studio e la ricerca della fisica, senza neppure fare troppa distinzione tra la fisica classica e la fisica moderna: se mai esistono degli approdi che un fisico ritiene sicuri, questi sono proprio i principi di conservazione. Ciò non di meno, è stupefacente scoprire che questi, che la fisica ha assunto come “principi”, sono in realtà giustificati e dimostrati da grandi teoremi di pura matematica, che li mettono in relazione con le grandi simmetrie dello spazio e del tempo. È stupefacente che i teoremi di Emmy Nöther non godano di maggior conoscenza presso il grande pubblico: e proprio per il loro valore intrinseco, matematico, fisico e filosofico, non certo solo perché Emmy Amalie Nöther era un donna. Emmy non ha bisogno di concessioni, di vantaggi concessi per cavalleria o galanteria, nella sua corsa al podio dei maggiori matematici di tutti i tempi.

– Potreste spiegare ai lettori perché fu così difficile per Nöther intraprendere la sua carriera di matematica?

Ogni tanto ci viene fatta la fatale domanda che probabilmente i docenti di Storia della Matematica si sentono chiedere ben più spesso di noi, ovvero:

“Perché esistono così poche donne tra i famosi matematici?”.

Si può rispondere in molti modi diversi: si possono elencare i nomi di alcune celebri matematiche, che poi in fondo non sono pochissime, specialmente se paragonate alla presenza femminile in altre scienze; si possono addurre possibili diverse “predisposizioni mentali”, che tradizionalmente (e assai scioccamente) riservano al cervello femminile differenti campi di eccellenza rispetto a quello maschile, e altre amenità del genere. La nostra risposta usuale a questa domanda è invece

“Per la stessa ragione per cui esistono assai pochi matrimoni tra Eschimesi e Watussi: gli incontri erano logisticamente difficili”.

È inutile cercare di nascondere la triste realtà: una delle prove più significative della perdurante prevaricazione del sesso maschile sul genere femminile sta proprio nella constatazione che alle ragazze l’educazione scolastica – non parliamo poi di quella universitaria – è stata sistematicamente negata, anche nei paesi scientificamente più evoluti, fino a relativamente pochi anni fa. Le fanciulle a cui era concesso di calpestare i pavimenti delle aule universitarie, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, erano più rare delle proverbiali mosche bianche. Emmy, tutto sommato, partiva da una situazione estremamente inusuale e favorevole, provenendo da una famiglia benestante e soprattutto essendo figlia di un grande matematico come Max Nöther; ciò nonostante, in Germania ha faticato moltissimo non solo per laurearsi, ma anche solo per ottenere il diritto di assistere alle lezioni. Per Emmy è stato assai più difficile diventare “studentessa” che palesarsi come genio matematico.

– Nel sesto racconto, invece, avete un’altra idea geniale: la storia è raccontata utilizzando l’artificio del romanzo epistolare ovvero dello uno scambio di lettere fra i protagonisti della storia (i matematici G. H. Hardy e J. E. Littlewood). A chi è venuta questa idea? C’è un libro epistolare che vi ha ispirato?

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G. H. Hardy (fonte Rudi Matematici)

Questo è forse il racconto che meglio riepiloga quanto detto prima, sul meccanismo della genesi dei racconti: ovvero sulla sequenza problema matematico storia vincoli narrazione. Il problema prescelto è un difficile problema di calcolo numerico, che però non richiede una particolare conoscenza di teoria matematica: in altre parole, un problema che richiama a gran voce la figura di Ramanujan, prodigioso calcolatore privo di tradizionale formazione matematica occidentale. Ramanujan è legato a doppio filo con G. H. Hardy, ma a noi Hardy richiama ancora più insistentemente John Littlewood, con il quale instaurò una collaborazione senza precedenti nella ricerca accademica. L’episodio più famoso che coinvolge sia Ramanujan che Hardy è il celeberrimo aneddoto del taxi numero 1729, e ci predisponevamo a descrivere i due accademici inglesi che, insieme, vanno a far visita all’indiano ricoverato in ospedale. Ma arriva il vincolo imprevisto, quello che ci fa scoprire, tramite una breve ricerca, che il famoso episodio accade mentre Littlewood è sotto le armi, e quindi i due non “possono” andare insieme a trovare il comune amico. Così, ci siamo appellati al principio “cambiamo gli stili dei capitoli, per quanto possibile”, e abbiamo ripiegato sul racconto epistolare. La cosa ci ha consentito di adeguarci ai vincoli storici, di riposarci un po’ dalla narrazione diretta (che è abbastanza faticosa, piena di incisi, di dialoghi e, soprattutto, di virgolette e caporali), e anche di parlar male della guerra, che è cosa che facciamo sempre volentieri. Inoltre, ci ha permesso anche di infilare nel racconto qualche piccolo “easter egg”, come lo chiamano gli americani; non è facilissimo da trovare, e finora ci risulta lo abbia notato solo una lettrice: ma va detto che si tratta di una lettrice che conosce benissimo gli autori, soprattutto uno dei tre.

– Gli ultimi due racconti sono densi di grandi personaggi della matematica (ma anche della fisica) del 900. Solo per citarne qualcuno, leggendo questi testi si incorreranno scienziati del calibro di Von Neumann, Stanislaw Ulam e Erdős. Anche qui, volendo incuriosire i nostri lettori, a quali sorprese devono prepararsi ?

A due sorprese:

  1.  I matematici sono persone normali.
  2. La precedente affermazione spesso è falsa.

Se non abbiamo resistito alla tentazione di rispondere con una battuta, è perché pensiamo che nello scherzo, come capita talvolta, ci sia molta verità. Gli ultimi due racconti sono quelli più vicini ai nostri giorni, e forse è più facile constatare quanto detto scherzando: i matematici (ma più in generale gli scienziati, anche i più geniali) sono e restano soprattutto uomini, con la loro nutrita dose di pregi, difetti, e soprattutto differenze.

Per quanto indiscutibilmente geniali entrambi, è difficile immaginare due personalità moralmente più diverse, ad esempio, di quelle di Leó Szilárd  e Edward Teller, che pure hanno condiviso patria d’origine, patria d’adozione e professione. Ed è lecito considerarli simpatici o antipatici, geniali in tutti i sensi positivi del termine, o cervelloni al limite del demoniaco, a seconda dei gusti. Ma sono in ogni caso soltanto uomini, con tutti gli annessi e connessi: in fondo, gli ultimi due capitoli possono proprio essere letti come una sorta di coppia complementare, perché nel penultimo l’eccezionalità sta più nell’evento storico narrato che nelle specifiche peculiarità intellettuali dei protagonisti del racconto, mentre nell’ultimo vale esattamente il contrario, con una situazione al contorno tutt’altro che critica, anzi oggettivamente banale, in cui però rifulge l’eccezionalità – e se si vuole anche la stranezza e originalità – di una delle menti matematiche più grandi del XX secolo.

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