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Pubblichiamo per la rubrica “interviste/recensioni” questa intervista a Rosetta Zan, già professore associato di Matematiche Complementari all’Università di Pisa, esperta in didattica della matematica. La sua ricerca ha come oggetto il problem solving, le difficoltà in matematica, il ruolo dei fattori non cognitivi nell’apprendimento, la formazione insegnanti.

La intervistiamo per parlare del suo libro “Difficoltà in matematica. Osservare, interpretare, intervenire”  edito da Springer.

Il libro è disponibile qui e qui.


Premessa: la lettura del libro “Difficoltà in matematica” è per un insegnante una stimolo a mettersi in gioco, ad abbandonare consolidate certezze e a motivarsi nuovamente per sperimentare nuove pratiche didattiche. È un libro che va letto se si insegna matematica a qualunque livello ma anche se si studia la disciplina per capire le difficoltà che si possono incontrare nel suo studio.

Le domande che le farò saranno divise in due parti:

  •  La prima parte delle domande, poiché il suo libro è molto ampio e articolato, ha come obiettivo quello di offrire spunti di riflessione a partire dai contenuti del suo testo e alternerà domande più generali ad aspetti più puntuali che pensiamo possano interessare i nostri lettori tanto quanto hanno interessato l’intervistatore.
  • Nella seconda parte, invece, inseriremo domande di carattere più generale sulla situazione della scuola, la ricerca didattica, la divulgazione e sul livello delle competenze matematiche italiano.

Parte 1

– Il suo libro Difficoltà in matematica si apre esponendo quella che lei evidenzia essere la sensazione di fallimento di molti insegnanti di matematica anche molto motivati: 

“Riesco ad insegnare qualcosa soltanto a quelli che imparerebbero anche da soli. E non riesco ad incidere su quelli che veramente avrebbero bisogno di me”

Può spiegare questa che lei definisce una vera “antinomia”?

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R. Zan durante una conferenza

Nella mia esperienza d’insegnante inizialmente ho avuto spesso la sensazione che alcune strategie, da me elaborate per aiutare gli studenti a comprendere, non avessero presa in realtà proprio sugli studenti che più mi preoccupavano: la sensazione era che ‘quegli studenti’ rimanessero completamente e inesorabilmente ‘fuori’ dai miei discorsi e dai miei tentativi. La distanza fra chi riusciva e chi non riusciva mi sembrava quindi aumentare invece che diminuire, facendo perciò allontanare invece che avvicinare l’obiettivo che mi ero posta. Il fatto che certi interventi falliscono proprio con gli studenti cui sono maggiormente destinati mi sembra costituire una contraddizione profonda, quella che appunto ho chiamato ‘antinomia’. Nella mia esperienza di formatrice ho potuto constatare che tale percezione è condivisa da molti insegnanti.

– Sempre nel primo capitolo afferma che esistono diverse ricerche sulle problematiche di comprensione di alcuni concetti matematici (per esempio sul concetto di funzione, di limite) e esistono, in parallelo, molte riflessioni sugli studenti in difficoltà (deficit sensoriali, psichici, derivazione socio-culturale). Può spiegare invece qual è il tentativo specifico di questa sua opera?

Diciamo che il primo tipo di ricerche sta ‘dentro’ la matematica, mentre il secondo ne sta ‘fuori’.

Il mio approccio vuole tener conto sia della specificità della matematica sia di quella dello studente, perché ritengo che solo in questo modo possiamo comprendere le difficoltà in matematica dei nostri allievi. Senza tener conto della specificità della matematica non si possono capire certe difficoltà, e d’altra parte se rimaniamo chiusi nella nostra cornice di matematici non possiamo capire chi si muove in una cornice diversa, caratterizzata da modi di pensare e di parlare completamente diversi.

– Che ruolo hanno quelli che vengono definiti, riutilizzando un termine introdotto dalla riflessione di G. Bachelard sul regresso della scienza, “ostacoli epistemologici” nell’insegnamento di discipline come la matematica o la fisica?

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G. Bachelard (fonte wikipedia)

Nell’apprendimento hanno un ruolo importante, proprio perché sono riconosciuti in qualche senso come difficoltà intrinseche della disciplina, e di conseguenza hanno un ruolo cruciale anche nell’insegnamento: il docente dev’essere consapevole della complessità di certi concetti o processi (ad esempio il concetto di infinito, di limite…) e del fatto che alcuni fraintendimenti all’inizio sono quasi inevitabili, e non vanno quindi liquidati come errori dovuti a difficoltà dei singoli studenti. Solo a partire da questa consapevolezza egli può regolare il proprio insegnamento.

– Di fronte alle difficoltà di uno studente, un docente cerca di realizzare degli interventi di recupero che, però, possono fallire non solo per l’inefficacia della strategia ma anche per inadeguatezza dell’interpretazione che dirige il recupero. Potrebbe spiegare questa osservazione contenuta nel suo testo? 

Anche l’inefficacia della strategia può dipendere dall’inadeguatezza dell’interpretazione.

Nel caso del recupero, l’interpretazione che (magari implicitamente) guida l’approccio tradizionale al recupero è estremamente semplice: se uno studente ha difficoltà in un certo ‘argomento’ (ad esempio le equazioni, o le frazioni…) vuol dire che non lo conosce a sufficienza, e quindi glielo rispieghiamo.

Questo approccio in genere non funziona, proprio perché l’interpretazione dei comportamenti dell’allievo che la ispira non tiene conto della varietà dei fattori che li influenzano: il fatto che la comprensione dell’allievo è frutto comunque dell’interpretazione dei messaggi dell’insegnante, e questa interpretazione può essere ‘distorta’ (si parla in questo caso di misconcetti), le differenze fra il linguaggio matematico e il linguaggio quotidiano ma anche fra la razionalità matematica e la razionalità quotidiana, una visione della matematica o una scarsa fiducia nelle proprie capacità che portano lo studente a rinunciare a pensare.

A volte l’interpretazione che viene data è un po’ più fine, e il docente attribuisce l’insufficiente conoscenza a una varietà di cause: mancanza di impegno, basi inadeguate, metodo di studio sbagliato, o addirittura atteggiamento di rifiuto verso la materia. Ma queste interpretazioni in realtà sono così vaghe che non riescono a dare indicazioni operative per il recupero. E infatti anche in presenza di tali interpretazioni l’intervento di recupero è sempre lo stesso.Zan_Matematica1-227x300

In definitiva è importante a mio parere che l’insegnante nell’interpretare i comportamenti di un allievo sia consapevole della complessità dei fattori che li possono influenzare, e poi riesca a formulare la propria interpretazione in modo chiaro e operativo, che dia cioè indicazioni per un recupero mirato. Il mio libro vuole offrire strumenti in questa direzione: a distanza di 10 anni dalla sua uscita, ho voluto delineare in modo più approfondito alcune indicazioni di tipo operativo per il recupero nel volume  Avere successo in matematica. Strategie per il recupero e l’inclusione (UTET Università, con la collaborazione di Anna Baccaglini-Frank).

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– Il secondo capitolo si concentra sull’errore. Nelle primissime righe di questa sezione infatti scrive:

“Protagonista indiscusso di questo capitolo è l’errore, o meglio, la scelta di assumere l’errore come indicatore privilegiato di difficoltà”

Perché questa scelta? Che problematiche si porta dietro?

Preciso subito che la scelta di assumere l’errore come indicatore privilegiato di difficoltà è quella che caratterizza l’approccio tradizionale alle difficoltà, e nel mio libro la metto in discussione per vari motivi: perché non funziona e perché ha delle conseguenze molto negative.

Non funziona perché parte da due premesse altrettanto discutibili: che l’errore sia sintomo di difficoltà, e che la mancanza di errori sia garanzia di comprensione.

Analizziamo la prima premessa. Il significato che può assumere l’errore dell’allievo dipende dalle richieste che fa il docente: se pone ai suoi allievi un problema complesso (che non sia cioè solo una versione leggermente modificata di quelli che ha spiegato in classe), l’errore va messo nel conto, e non è quindi indicatore di difficoltà. Viceversa se chiede ai suoi allievi di applicare a esercizi tutti uguali una procedura illustrata in precedenza, l’errore assume un altro significato. Il fatto che l’errore in genere viene assunto come indicatore di difficoltà a mio parere discende proprio dal fatto che le richieste che facciamo all’allievo sono più di questo secondo tipo, cioè richiedono di ‘riprodurre’ un comportamento già noto, piuttosto che ‘produrre’ qualcosa di nuovo.

D’altra parte che la mancanza di errori non garantisca l’assenza di difficoltà è ben noto a chiunque insegni: un risultato corretto può essere anche il frutto di un processo scorretto, o addirittura di una risposta data a caso. Noi insegnanti del resto sappiamo bene come si fa a diminuire il rischio di risposte scorrette: dobbiamo stare attenti a quali domande fare, ma anche a come formularle, in modo che orientino il più possibile lo studente a far riferimento proprio a quella conoscenza che vogliamo venga utilizzata.

La convinzione che in mancanza di errori tutto funzioni è un’illusione, e molto pericolosa: perché rende irresistibile la tentazione di abbassare la difficoltà delle richieste (anche perché si pensa in questo modo di ‘aiutare’ lo studente), …e la polvere semplicemente si accumula sotto il tappeto.

– Nonostante l’importanza dell’errore nella ricerca scientifica e nella didattica, lei sostiene che spesso nella pratica dell’insegnamento si ha “paura dell’errore” e si cerca di evitare gli errori degli studenti. 

Riporta un brano della ricercatrice Krygowska che critica i tipici libri di matematica in cui sono presenti esercizi raggruppati in modo che si possano svolgere tutti allo stesso modo a partire dall’esercizio d’esempio.  Quale sarebbe, invece, il “corretto” approccio?

Un approccio che veda nell’errore un momento inevitabile nello sviluppo della conoscenza.

Per realizzare questo approccio a mio parere sarebbe necessaria soprattutto un’inversione dei tempi. Nella pratica didattica in genere prima si spiega un concetto, una procedura, una definizione, un teorema, dopo si illustra un esempio o un’applicazione, quindi si propongono agli allievi un certo numero di ‘problemi’ che ricalcano tale esempio o applicazione. In questo modo i problemi si riducono in realtà a esercizi, e il successo viene identificato con una risposta corretta possibilmente data in poco tempo: errore e tempo sono percepiti come nemici, sia dall’allievo che dall’insegnante.

Ma pensiamo come cambierebbero le cose con una semplice inversione dei tempi: partiamo da un problema, o da una classe di problemi, per introdurre una procedura, una definizione, un risultato. Ad esempio nel caso di una procedura (come la sottrazione a livello di scuola primaria) di fronte a un problema che l’esperto affronterebbe con tale procedura gli allievi si troveranno in difficoltà proprio perché si devono in qualche modo arrangiare avendo a disposizione delle conoscenze limitate: anche se molti o solo alcuni riusciranno a trovare strategie, basterà cambiare di poco il problema (ad esempio semplicemente variando i dati numerici) perché si rendano conto di dover escogitare strategie diverse, e a un certo punto percepiranno la necessità di strumenti più potenti. A quel punto introduciamo la procedura.

In questa ottica l’insegnante conta sugli errori, perché sono proprio gli errori a dare senso all’insegnamento: in mancanza di errori o di difficoltà non sarebbe necessario introdurre uno strumento nuovo. E anche gli alunni possono percepire che gli errori o le difficoltà incontrate sono le basi su cui stanno costruendo apprendimento.

Perché questo sia possibile l’ambiente di lavoro deve essere libero dall’ossessione della valutazione, così che errore e tempo possano essere percepiti come risorse invece che come nemici.

– Nel suo testo mi sembra essere presente una decisa critica alla pratica didattica, sempre più diffusa soprattutto alle elementari e alle medie, di dare esercizi sotto la forma di “schede” in cui lo studente si deve limitare a compilare qualche parola o a mettere delle crocette.

Ci spiega quali sono, secondo lei, i rischi di questo approccio? E cosa intende per attivazione di processi di pensiero significativi?

Dare le domande in forma semplificata, offrendo un’opzione di risposte, ‘risparmia’ allo studente una fatica che è essenziale per l’apprendimento: quella di elaborare a anche di esprimere in forma autonoma il proprio pensiero.

Questa scelta di semplificare le cose agli allievi è legata alle osservazioni che facevo sugli errori nelle risposte precedenti. È la paura degli errori che ci porta spesso ad evitare la complessità, dato che di fronte a un problema complesso l’errore è quasi inevitabile. Così nel caso delle schede formuliamo noi una risposta, nella convinzione che gli allievi non riuscirebbero a elaborare una risposta corretta. Ma perché ci interessa così tanto la risposta corretta? Ci dovrebbe interessare di più il ragionamento e comunque il processo che lo studente attiva di fronte alla domanda.

In definitiva l’inseguimento delle risposte corrette testimonia un’attenzione centrata sui prodotti (le risposte, appunto) piuttosto che sui processi.

Inoltre il ricorso a schede, e comunque a risposte già confezionate, non permette di sviluppare competenze trasversali cruciali come quelle linguistiche.

Per attivare processi di pensiero significativi ritengo necessario porre domande o problemi adeguatamente complessi (e a volte per far questo, come dicevo sopra, è sufficiente un’inversione dei tempi). Cosa intendo per processi significativi? Processi di pensiero autonomi, elaborati dall’allievo (con fatica) alla ricerca di una soluzione di cui sente il bisogno, anche se magari alla soluzione non arriverà: non sforzi mnemonici per recuperare ricordi che gli permettano di dare una risposta corretta. Certamente emerge di nuovo l’importanza di un ambiente di lavoro sereno e inclusivo, libero dall’ossessione della valutazione.

– Assolutamente interessante e contro il sentire comune è la sua critica all’oggettività della valutazione in matematica in contrapposizione con le altre discipline. Può accennare ai lettori perché questa oggettività è un mito pericoloso?

Perché nasconde la responsabilità delle scelte dell’insegnante o comunque di chi valuta, impedendo di discutere sugli aspetti più importanti del processo di valutazione.

Nel momento in cui decido di valutare la preparazione degli studenti su un certo argomento (o addirittura su una certa disciplina) attraverso certi strumenti e in particolare attraverso certe domande e una certa formulazione di tali domande, in modo più o meno consapevole individuo certi ‘indicatori’ di tale preparazione, e costruisco di conseguenza una serie di domande. Quali indicatori ho scelto, perché, e poi quali domande scelgo in coerenza con tali indicatori, come formulo le domande, addirittura quanto tempo lascio agli studenti per rispondere… sono tutti elementi cruciali e soggettivi: ma rimangono impliciti e raramente se ne discute.

Sono cruciali, nel senso che la quantità e la qualità degli errori fatti dallo studente dipende ovviamente da cosa gli chiedo, da come glielo chiedo, e da quanto tempo gli do per rispondere.

Sono fortemente soggettivi, perché dipendono dalle conoscenze e convinzioni di chi ha costruito la prova.

Per evitare fraintendimenti aggiungo che questa soggettività è inevitabile, e non mi scandalizza: è il fatto di ignorarla o addirittura negarla che ha conseguenze molto negative. Nascondere questa soggettività porta infatti a non mettere in discussione (a volte addirittura a ignorare) lo strumento utilizzato, e gli esiti negativi o positivi della valutazione vengono letti come indicatori oggettivi delle conoscenze / abilità / competenze degli allievi.

Nella pratica didattica usuale a questa soggettività nella costruzione delle prove ne va aggiunta un’altra. Quando valuta, l’insegnante in genere non dà lo stesso peso a tutti gli errori: considera ad esempio meno ‘gravi’ quelli che (a suo parere) sono frutto di distrazione, o quelli che (a suo parere) hanno conseguenze meno rilevanti, o quelli che (a suo parere) hanno cause meno importanti, o quelli che (a suo parere) sono più facili da correggere, ecc. È evidente la soggettività di tutti questi criteri, e soprattutto del modo in cui vengono applicati. Anche qui non mi scandalizza questa soggettività, ma mi preoccupa la scarsa consapevolezza che spesso l’accompagna.

In definitiva l’oggettività della valutazione a mio parere è un mito, ma un mito di cui possiamo fare tranquillamente a meno, purché lo sostituiamo con la trasparenza della valutazione, e l’assunzione della responsabilità delle nostre scelte.

– Altro aspetto che ho trovato in controtendenza è la sua critica alla “item analysis” che tende a classificare la difficoltà delle domande in base ai risultati statistici, ignorando la attività didattica con cui sono stati trattati gli stessi argomenti. Che problematiche ha, secondo lei, questo approccio?

Mi sembra discutibile trattare una classe come un campione di soggetti scelto in modoitem_analisys casuale. In quella classe l’insegnante ha innanzitutto messo in atto strategie per raggiungere certi obiettivi, e poi nel momento della valutazione ha messo in atto altre strategie per verificare il raggiungimento di tali obiettivi (che sono innanzitutto suoi). Mi sembra che l’item analysis e più in generale un approccio tecnico alla valutazione nasconda l’importanza e la soggettività delle scelte dell’insegnante, e quindi ostacoli una riflessione su tali scelte, in particolare sui motivi per cui possono rivelarsi non completamente efficaci.

Dopo aver “distrutto” molte certezze nel lettore delinea quella che secondo lei è la strada da seguire ovvero quella dell’ “errore come risorsa didattica” richiamando la proposta dalla ricercatrice Raffaella Borasi.

Ovviamente si rimanda alla lettura del suo libro per capire questo approccio in dettaglio, in ogni caso può dare uno spunto ai nostri lettori su ciò?

L’idea di Raffaella Borasi è che a partire da un errore, non demonizzato ma analizzato insieme all’allievo e alla classe, si può attivare un processo di apprendimento significativo ponendo domande ‘in positivo’ invece che ‘in negativo’. Pensiamo ad esempio all’errore ricorrente in cui si sommano due frazioni sommandone rispettivamente numeratori e denominatori. Borasi propone di chiedere: ‘ci sono dei casi in cui questo algoritmo dà risultati corretti?’, ‘ci sono delle operazioni in cui numeratore e denominatore sono combinati separatamente?’. È un approccio indubbiamente interessante, anche se a mio parere in molti casi per funzionare ha bisogno di una certa preparazione e motivazione da parte degli studenti (e si ritorna all’antinomia dell’insegnante…). Inoltre spesso gli studenti con difficoltà rispondono a caso, e quindi sono i primi a non credere a quello che dicono.

Condivido però l’idea di fondo che l’errore costituisca una risorsa didattica sia per il docente che per l’allievo: per il docente, perché può essere il punto di partenza per comprendere cosa e come pensa l’allievo; per l’allievo, perché può essere il punto di partenza di un processo di apprendimento importante, purché venga gestito in modo opportuno dall’insegnante.

Faccio un esempio relativo ai precorsi che per tanti anni abbiamo proposto alle matricole della Facoltà di Scienze dell’Università di Pisa. Ogni volta sull’argomento che volevamo trattare proponevamo un questionario iniziale, e poi aprivamo un confronto e una discussione sulle risposte date dagli studenti. Le domande dei questionari erano spesso difficili, perché non ci interessava la correttezza delle risposte, ma volevamo piuttosto attivare negli studenti certi ragionamenti e la consapevolezza di certi problemi. Ad esempio nel questionario sui numeri chiedevamo:

‘Cos’è un numero naturale? Cos’è un numero intero?’ ecc.

Le risposte degli studenti, al di là della loro correttezza, testimoniavano non solo una grande confusione sull’argomento specifico (che coinvolgeva anche il concetto di rappresentazione di un numero, e la differenza fra proprietà intrinseche del numero e proprietà legate alla rappresentazione), ma anche e soprattutto un modo di affrontarlo poco matematico (ad esempio venivano date definizioni circolari: i naturali si definivano a partire dagli interi, e gli interi a partire dai naturali).

Un confronto sereno e costruttivo degli errori emersi, privo di qualsiasi giudizio su chi l’aveva dato, ha quindi permesso un ‘ripasso’ dell’argomento che partiva dai misconcetti degli studenti, cioè che si agganciava alle conoscenze che comunque avevano costruito, e che al tempo stesso affrontava alcuni aspetti importanti del linguaggio matematico.

Il docente e gli studenti avevano la percezione chiarissima di quanto l’errore di uno studente diventava così una risorsa incredibile non solo per lo studente che lo aveva commesso, ma per tutti, in primis per il docente.

In questa esperienza mi hanno colpito tantissimo le risposte date dagli studenti ai questionari finali (anonimi) di valutazione dell’esperienza. Alla domanda

‘Cosa ti ha colpito di più dei precorsi?’

la risposta più frequente è stata ogni anno:

‘Il fatto di poter sbagliare’.

– Nel terzo capitolo passa a descrivere l’apprendimento come “attività costruttiva” e evidenzia delle possibili interpretazioni non standard di un errore che dovrebbero costituire un “repertorio di interpretazioni possibili” bagaglio utile per ogni docente. Può fare qui un esempio?

Ad esempio spesso sottovalutiamo il fatto che il linguaggio che lo studente utilizza nella sua vita di tutti i giorni presenta caratteristiche molto diverse dal linguaggio matematico: caratteristiche funzionali ad affrontare e risolvere i problemi di tutti i giorni, in particolare quelli relativi alla comunicazione con gli altri. Queste differenze fra i due linguaggi – che vanno trattate con consapevolezza e attenzione dall’insegnante – possono portare a errori che in alcuni casi sono assolutamente ragionevoli, e non sono segnali di mancanze dell’allievo.

Qui mi limito a un esempio relativo alla confusione che può nascere da una parola che viene usata nei due linguaggi con significati diversi (ma i problemi più importanti nascono a mio parere da aspetti più generali: i modi diversi in cui i due linguaggi usano i connettivi, il ruolo diverso che assume il contesto, le conseguenze che la funzione di comunicazione del linguaggio quotidiano ha sull’interpretazione dei messaggi).invalsi_img

Nella prova INVALSI del 2013 per la quinta primaria si chiedeva

‘quale di questi numeri è più vicino al 100?’

Le opzioni fra cui scegliere erano:

  • A. 100,010
  • B. 100,001
  • C. 99,909
  • D. 99,990

La domanda è risultata piuttosto ‘difficile’: ha scelto la risposta corretta (B) il 43,9% del campione nazionale, ma la maggioranza relativa del campione nazionale (il 44,6%) ha scelto la risposta D.

In una ricerca che abbiamo condotto al nostro dipartimento con un gruppo di insegnanti ci siamo chiesti da cosa potesse dipendere questo esito, ed in particolare se davvero fosse collegato a difficoltà relative allo scopo dichiarato della domanda, cioè il confronto fra numeri decimali. Abbiamo dunque sperimentato il quesito in tre classi quinte, chiedendo agli allievi di lavorare individualmente, e di spiegare il ragionamento effettuato. Quando ogni bambino aveva terminato il proprio lavoro è stata condotta una discussione sulle strategie di soluzione adottate.

Dal confronto delle strategie emerge come la risposta D sia legata quasi esclusivamente all’interpretazione della parola ‘vicino’, parola che nel linguaggio quotidiano ha un significato diverso dal termine specifico matematico.

La maggioranza dei bambini esplicita come per loro l’espressione “vicino a 100” significhi “che non supera il numero 100, che lo deve ancora raggiungere”:

Non abbiamo considerato i numeri successivi a cento: il più vicino a cento significa che non sono ancora arrivato a cento

Il più vicino al 100 vuol dire che non c’è ancora arrivato

Il 100,010 e 100,001 sono da escludere perché sono oltre il 100 e quindi lo superano e si allontanano

Nella discussione sono particolarmente espressivi gli esempi che chi sceglie la risposta D porta per convincere gli altri della propria interpretazione del termine ‘vicino’. Il più ricorrente nelle tre classi è quello relativo al contesto sportivo: “quando sei vicino al traguardo vuol dire che non lo hai ancora raggiunto, non che sei dopo”, ma ce ne sono anche altri, tra i quali quello di un bambino che, riportando una conversazione tra adulti, ha esclamato: “alla fine il mio babbo ha detto che il suo stipendio è vicino…è circa 1300 euro. Non vuol dire 1350…”.

Molto significativa a mio parere la riformulazione del testo che i bambini propongono per evitare questo fraintendimento: “Quale di questi numeri, andando avanti e indietro sulla linea dei numeri, è più vicino a 100?”.

– Sempre questo capitolo è pieno di spunti significativi anche questi non scontati per molti insegnanti. Si riflette del problema di come un contesto di una domanda possa influenzare le risposte degli studenti, si parla inoltre della differenza fra pensiero logico-scientifico e narrativo che non sono necessariamente in contrapposizione. Quale fra queste idee vorrebbe introdurre ai nostri lettori per poi rimandarli ad un approfondimento successivo?

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“Readers”, lettori: illustrazione del cartoonist Tom Gauld apparsa su una cover del Guardian

La differenza fra pensiero logico e pensiero narrativo mi affascina particolarmente perché rimanda alla differenza fra diverse razionalità: come nel caso del linguaggio la razionalità quotidiana ha delle caratteristiche diverse da quella matematica. Spesso noi docenti di matematica tendiamo a identificare la razionalità con quella matematica, o comunque scientifica, e a definire irrazionali modi di pensare che si discostano da essa. Ma mi sembra un approccio riduttivo, che non permette di comprendere come ragiona lo studente, e quindi non permette di mettere in atto strategie didattiche efficaci.

L’attenzione al delicato rapporto fra pensiero narrativo e pensiero logico a mio parere è cruciale nell’apprendimento e nell’insegnamento della matematica, soprattutto nel primo ciclo ma non solo, in particolare nell’attività di risoluzione di problemi: infatti in genere i problemi descrivono una situazione che si presume realistica per l’allievo, e poi su questa pongono una domanda. Ma la situazione è solo apparentemente realistica (piena com’è di vincoli non realistici, o di informazioni date in modo artificioso), e soprattutto non ha niente di realistico la domanda che viene posta su tale situazione (che nessuna persona di buon senso si porrebbe), o addirittura la risposta che ci si aspetta dall’allievo (che spesso è frutto di un processo risolutivo semplificato rispetto a una soluzione realistica). Per rendersene conto basta aprire un libro di testo e leggere i problemi proposti, ad esempio: “In un cesto sono contenuti 1,75 kg di tartufi neri, che devono essere divisi fra tre persone in modo tale che alla seconda spettino 30 g in più della prima e alla terza 40 g in più della seconda. Calcola quanti grammi di quei tartufi riceverà ogni persona.”

Dati tutti questi elementi di artificiosità, in particolare nella domanda, succede allora che quando il richiamo alla realtà della situazione descritta evoca nell’allievo un pensiero di tipo narrativo, questo tipo di pensiero ostacola invece che favorire una risposta corretta alla domanda posta: ma l’errore (ammesso che si possa considerare tale) è responsabilità di una formulazione infelice del testo, e non della scarsa ‘razionalità’ dell’allievo o dei limiti del pensiero narrativo!

A questo tema ho dedicato il mio libro I problemi di matematica. Difficoltà di comprensione e formulazione del testo, in cui suggerisco anche strategie di formulazione del testo di un problema che favoriscano un’integrazione produttiva fra pensiero narrativo e pensiero logico.

A volte come dicevo sopra è la risposta considerata come corretta ad essere meno realistica di quella data dall’allievo, come in questo esempio, tratto dalla prova INVALSI:

Una classe di 9 maschi e 10 femmine, accompagnati dalla maestra Gianna e dalla maestra Luisa, sale sul pulmino per andare in gita. Restano due posti liberi. Quanti sono in tutto i posti a sedere per i viaggiatori sul pulmino?

  • 19

  • B 21

  • C 23”

La risposta considerata corretta è la C, ottenuta sommando il numero degli allievi maschi, delle femmine e delle insegnanti (21) e quindi aggiungendo i due posti rimasti liberi: solo il 17,3% del campione nazionale sceglie questa opzione.

In una sperimentazione che abbiamo condotto su questo problema chiedendo ai bambini di spiegare il ragionamento fatto, abbiamo visto che molti scelgono la risposta B, considerata scorretta e scelta dal 36,2% del campione nazionale. In realtà dalle nostre sperimentazioni è emerso che la risposta non è necessariamente frutto di un errore, ma può essere invece la conclusione di un ragionamento sensato e soprattutto fortemente legato alla realtà evocata dal contesto.

Diversi bambini dichiarano infatti di aver sommato il numero dei bambini e dei posti liberi senza contare le maestre

“perché le maestre quando usciamo tutti in pulmino non  si  mettono  a  sedere”,

oppure

“ perché le maestre stanno in piedi a guardare come va la situazione”.

– Nel capitolo 4, riporta due ricerche che lavorano sul problema del curriculum nascosto: il lavoro di Graeber e Johnson e il progetto ArAl rispettivamente per scuola secondaria e primaria. In cosa consiste questo curriculum nascosto e quali sono gli aspetti caratterizzanti di queste ricerche?

L’idea di base è che (coerentemente con quello che si chiama modello costruttivista dell’apprendimento) ogni persona interpreta l’esperienza, e in particolare l’allievo interpreta i messaggi dell’insegnante. Quando l’insegnante ‘spiega’ un concetto, una procedura o altro, ogni allievo interpreta i messaggi dell’insegnante alla luce delle conoscenze che ha, ma anche delle convinzioni che ha costruito attraverso l’esperienza. Quindi parallelamente al curriculum trasparente dell’insegnante in classe ogni allievo costruisce un proprio curriculum, che in generale non coincide con quello dell’insegnante, e soprattutto rimane nascosto.Gardner_educare_al_comprendere

La ricerca (non solo in didattica della matematica, penso al bellissimo testo di Howard Gardner Educare al comprendere) sottolinea la necessità di fare attenzione e di agganciarsi a questo curriculum nascosto se vogliamo costruire apprendimento. La metodologia utilizzata nei precorsi che ho descritto in una delle risposte precedenti aveva proprio questa finalità.

– I capitoli 5 e 6 sono incentrati sul problem solving nella pratica didattica. Perché è così importante?

In parte ho già risposto parlando della paura dell’errore. Aggiungo che lavorare con i problemi (il che non significa necessariamente risolverli) permette di sviluppare competenze, e non solo conoscenze e abilità, perché l’allievo si trova in una situazione nuova, e deve selezionare e utilizzare le proprie conoscenze in vista di un obiettivo. È il modo naturale per promuovere processi di pensiero tipici della matematica, quali comprendere un problema, esplorare, congetturare, pianificare, argomentare, dimostrare, controllare la soluzione. Attraverso il problem solving possiamo quindi favorire nell’allievo la costruzione di una visione della matematica adeguata, ma possiamo anche promuovere il suo senso di autoefficacia, nel momento in cui valorizziamo i processi rispetto ai prodotti.

Inoltre il problem solving per sua natura è trasversale (si possono porre problemi nel contesto di qualsiasi disciplina), e permette quindi di sviluppare competenze trasversali importantissime anche nella vita di tutti i giorni, e che nella società attuale appaiono decisamente carenti: riconoscere un problema, fare l’analisi della situazione, quindi dei vincoli ma anche delle risorse disponibili, pianificare e prevedere l’esito delle proprie azioni. Sono aspetti che permettono di lavorare anche su un tema a mio parere urgente nella nostra società, cui la scuola non può sottrarsi: quello dell’assunzione della responsabilità delle proprie azioni. Infine il problem solving può costituire un ambiente ‘protetto’ in cui imparare a gestire le proprie emozioni (rabbia, frustrazione, senso d’impotenza) e soprattutto a riconoscere e interpretare il fallimento, inteso semplicemente come mancato raggiungimento di un obiettivo. E anche quello dell’incapacità di gestire il fallimento mi sembra un tema assolutamente urgente nella nostra società.

– Sempre nel capitolo 6 esamina il lavoro del matematico Polya, il suo contributo alla didattica ma anche le critiche successive che gli sono state. Si parla dell’idea di introdurre un “repertorio di euristiche” e delle critiche a questo approccio fondare sugli studi sull’intelligenza artificiale. Può spiegare questi aspetti ai nostri lettori?

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G. Polya

Il lavoro di Polya è stato davvero pionieristico, e le critiche successive vanno contestualizzate nel tempo. Cercando di sintetizzare, potremmo dire che prima di Polya l’abilità di risolvere un problema veniva ricondotta semplicemente alle conoscenze del solutore: in definitiva un ‘bravo’ solutore di problemi di geometria era considerato uno che conosce la geometria.

Polya, analizzando i processi che il matematico di professione attiva quando affronta un problema, mette in evidenza che tali processi sono mobilitati da alcune domande che egli si fa sistematicamente, ad esempio: ‘cosa conosco?’ ‘cosa devo trovare?’ ‘posso ricondurmi ad altri problemi che so risolvere?’, ecc. L’individuazione di tali domande lo portano quindi a identificare alcune strategie di carattere generale, cioè alcune euristiche, che a suo parere possono e devono essere insegnate all’allievo. Potremmo dire che le euristiche favoriscono l’utilizzazione delle conoscenze che il solutore ha, e che altrimenti rischiano di rimanere inerti. La ricerca successiva è andata avanti, partendo dall’osservazione che la conoscenza delle euristiche non è sufficiente, in quanto non garantisce che il solutore che possiede un repertorio di euristiche sia poi in grado di selezionare quella più adeguata al problema. Questo ha aperto il campo agli studi sull’importanza della metacognizione, cioè dell’uso ottimale delle proprie risorse, per poi mettere via via in evidenza l’importanza di altri fattori: le convinzioni che il solutore ha costruito sulla matematica, sui problemi e su di sé, e infine anche le emozioni. In definitiva a mio parere Polya ha messo in discussione un approccio semplicistico al problem solving, e proprio il varco che ha aperto ha permesso ulteriori allargamenti e approfondimenti.

– Nel settimo capitolo analizza alcuni comportamenti responsabili degli errori: la rinuncia ad andare avanti a causa della visione della matematica come formule da applicare e l’insicurezza delle proprie competenze ( “io non ricordo le formule”). 

Ci può brevemente spiegare, attraverso uno dei tanti esempi riportati nel suo testo, questa problematica della visione della matematica come prodotti e non come processi? 

È la visione della matematica più diffusa: la matematica come un insieme di regole da ricordare e da applicare. Uno studente che ha questa visione di fronte a un problema si affannerà a cercare di recuperare la regola ‘giusta’, e se non riesce a recuperarla rinuncerà.

Nel libro faccio l’esempio di uno studente di terza liceo scientifico, Nicola, che deve risolvere la disequazione:

$$ -7x^2 < \sqrt{7}$$
Moltiplica ambo i membri per –1/7, ottenendo:

$$x^2>-\frac{\sqrt{7}}{7}$$
Poi moltiplica per 7 e porta tutto al primo membro:

$$7x^2+\sqrt{7}>0$$

A questo punto si ferma.

Nicola si trova a risolvere questa disequazione nell’ambito di un’intervista condotta da una studentessa di Matematica all’interno di un lavoro sulle difficoltà, e la studentessa gli chiede:

Perché invece di ricordarti cosa devi fare, non provi a risolverla da solo?”.

Nicola risponde: “La matematica è fatta di regole ben precise che vanno seguite, non ci si può inventare nulla. I problemi si risolvono seguendo quelle regole e io, ora, non mi ricordo come si risolvono le disequazioni”.

Questa visione della matematica fatta di regole ben precise, e insieme di problemi che vanno risolti applicando rigidamente una di queste regole, influisce sui processi decisionali di Nicola e in generale sui suoi comportamenti: se davanti a un problema non ricordi la regola ‘giusta’, lascia stare, perché non c’è possibilità di arrivare a una soluzione.

Naturalmente uno studente non nasce con questa visione: la costruisce attraverso l’esperienza. Se Nicola ha ricevuto un insegnamento che dava molta enfasi alle regole invece che ai perché (quindi agli esercizi invece che ai problemi, alla memoria invece che al ragionamento, al ‘dovere’ invece che al ‘potere’,…), non possiamo stupirci della visione della matematica che ha costruito.

(Video di un intervento della prof.ssa Zan ai Lincei)

Sempre in questo capitolo parla delle responsabilità dell’insegnamento. L’insegnante è colui che “butta il salvagente ad una persona che sta facendo una scalata in montagna, perché sa che fra poco questi andrà al mare e ne potrebbe aver bisogno: non c’è da stupirsi se chi è impegnato a scalare, soprattutto se è in difficoltà, butta via il salvagente.”

Evidenzia, inoltre, come l’insegnante possa avere responsabilità anche nella costruzione di uno scarso senso di efficacia negli studenti.

Qual è il primo suggerimento che darebbe ad un insegnante (oltre a quello di leggersi il suo libro) per affrontare questi problemi?

Anche per questa domanda rimando ad alcune riflessioni fatte nelle risposte precedenti: l’importanza di non aver paura degli errori, del problem solving, l’opportunità di ‘invertire’ i tempi rispetto alla pratica didattica tradizionale.

Sullo scarso senso di autoefficacia degli studenti aggiungo la necessità di un insegnamento incoraggiante: come nel caso della visione della matematica, lo studente non nasce con la convinzione di essere negato per la matematica o di essere poco intelligente. Costruisce questa convinzione interpretando la propria esperienza, i messaggi dell’insegnante, dei compagni e anche della famiglia. Una valutazione che pretende di valutare la persona invece che la sua prestazione (“sei negato”, “sei insufficiente”,…) in questo senso ha degli effetti distruttivi. Quando vedo in uno studente il frutto di un ‘insegnamento’ di questo tipo provo dispiacere ma anche rabbia: non ci rendiamo conto che a togliere possibilità ai nostri allievi ci rimettiamo tutti?

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