contessa

La Contessa, disegno di Maria Mannone

 Una volta (o due volte, n volte… questo racconto è vero per induzione), due elementi qualsiasi del mondo della Chimica, di nome Trizio e Caio, in compagnia di un terzo, Semprozio (tanto banale da essere ottenuto come combinazione lineare dei primi due), decisero di imparare un po’ di Fisica. Erano guidati da un fisico e anche da un metafisico, alla porta del quale avevano inizialmente bussato per errore.

Prima di essere ammessi nello Stato della Fisica, furono introdotti nel Paese della Matematica, con esso confinante.

Quanto segue è il resoconto della prima parte del loro viaggio, che si rivelò avventurosa e con colpi di scena.

Trizio, Caio e Semprozio vollero subito andare verso uno dei più grandi centri abitati. Notarono per prima cosa il grande edificio della Corte dei Conti, dove i matematici più nobili (i Conti, appunto), che erano quelli con maggior potere (ossia quelli che contavano), revisionavano i conti di ogni Contea. Poco lontano, si scorgeva la sede della Funzione Pubblica, dove transitavano tutti gli impiegati; un po’ più avanti sorgeva il tempio della Funzione Religiosa, in cui pregavano i matematici che anelavano a dimostrare i loro teoremi. Quello era anche il luogo deputato alla spiegazione delle Parabole e alla demitizzazione delle esagerazioni iperboliche.

Trizio, Caio e Semprozio si inoltrarono in un quartiere residenziale, ombreggiato da una successione di alberi dalle evidenti radici quadrate e cubiche. Lì, come fu loro spiegato, si trovavano le dimore di due famiglie fra loro opposte (ma non uguali): i Chiusi e i Donati. Più avanti si trovavano gli Aperti. Trizio, Caio e Semprozio vennero a sapere che i dintorni di quelle case erano detti “intorni”. Nelle immediate adiacenze si trovavano le abitazioni – sostanzialmente dei monolocali – dei Punti, rigorosamente in pietra perché i punti sono concetti primitivi. Fra tutte, risaltavano l’abitazione del Punto di accumulazione, nel cui intorno erano contenute pressoché tutte le case dei Punti; del Punto di frontiera, il viaggiatore, la cui casa sconfinava nelle altre; del Punto isolato (dall’intorno completamente vuoto).

Fu notata la presenza di un Punto e Virgola, probabilmente un infiltrato proveniente dal Paese della Letteratura.

Conclusa la passeggiata, il gruppetto entrò in un punto di ristoro, un’osteria, dove il fisico fece le ordinazioni in lingua differenziale, dal momento che si trovava in un locale. Un televisore trasmetteva le performances dei piloti di Formula Uno, Tre, …, 2n+1. Si parlava di circuiti a vari gradi di complessità, risolti da abili piloti per mezzo delle equazioni di Hamilton e dei polinomi di Mac Laren. Malgrado l’affollamento, l’oste fu molto puntuale. Poiché dal suo punto di vista era giusto presentare le specialità del luogo, propose delle bevande tipiche, che servì in bottiglie di Klein. Al momento di pagare il conto non vi fu alcuna approssimazione, in quanto era stato già messo in debito conto che tutti i conti si dovessero fare con e non senza l’oste.

Ad un tavolino del locale, intanto, due avventori che sorseggiavano birra, ragionavano se, per Hilbert, fare geometria significasse stabilire relazioni fra oggetti, fossero anche boccali di birra, appunto, e tavolini del bar. L’oste, che in quel punto si trovava loro vicino, confermò che ciò poteva essere considerato vero in base allo spumeggiante teorema di Heineken-Cantor.

All’improvviso, nel locale si cominciò ad avvertire una certa agitazione, i prodromi di una contesa. Era entrata nel locale una bellissima donna di nobili origini: una contessa. Appena i presenti la scorsero, nacque una contesa tra i matematici nobili (i conti) che rivendicavano per sé il diritto di corteggiamento, e altri matematici più… democratici, dediti alla risoluzione dei problemi quotidiani, i quali dichiararono: «Noi soli facciamo veri e propri conti, quindi noi soli realmente e potenzialmente contiamo».

Un numero n di matematici, preoccupati che a causa di conti e contanti insorgesse un pericoloso contenzioso, per allentare la tensione intonarono l’inno ufficiale del Paese della Matematica: Io conto – le mani in tasca e conto – voglio contare, solo contare. Gli altri matematici presenti che si occupavano non solo di numeri naturali, ma anche di numeri interi, razionali, irrazionali, etc., ritennero che quel canto equivalesse ad una provocazione. Avvertirono quindi i loro canterini colleghi: «All’uscita faremo i conti!».

Dalle parole si passò ai fatti. In breve gli sconcertati Trizio, Caio e Semprozio, insieme ai loro accompagnatori, videro volare in aria tutti i conti. Era perfino saltato il contatore, e per qualche secondo non c’era stata luce a sufficienza. L’oste chiedeva a gran voce conto e ragione di quanto accadeva.

Il trambusto aveva richiamato dei cronisti, i quali tenevano in gran conto ogni elemento o frazione di esso, contando di trasmettere al loro giornale dei puntuali resoconti dei fatti.

Per stimare i danni causati dalla contesa, e farne un esatto conteggio, intervennero dei contabili, o meglio, dei ragionieri, i quali ragionavano di numeri per conto proprio o conto terzi, comunque (per contratto) senza alcun tornaconto personale. A quel punto si sentì il pianto di un matematico depresso. «E io che conto? Su chi posso contare? Io non conto nulla!» singhiozzava. In effetti, non era minimamente calcolato. Tutti lo consideravano trascurabile e non intendevano inserirlo nella contabilità.

Alla resa dei conti, fra i pianti, i canti, i conti e i conteggi, riapparve la bella contessa contesa. I suoi lunghi capelli, di una varietà pettinabile, erano fermati da un nastro di Moebius perfettamente senza bordo. Era formosa, ma compatta, ed inoltre era dotata di un seno iperbolico, tale da scuotere anche i matematici più anziani, inclusi quelli che avevano i giorni contati. Le sue curve erano regolari in ogni punto; la superficie della sua pelle era liscia e ben differenziabile. Ammetteva in ogni punto il piano tangente (gli ammiratori più audaci avrebbero desiderato verificarlo anche sperimentalmente).

La contessa era di gran contegno e aveva un animo elevato, di sicuro ad n, pensavano gli astanti. Si sottraeva all’analisi di chi aveva irrazionalmente fatto dei conti su di lei, e perfino di chi si sarebbe accontentato di un suo sguardo o sarebbe stato contento soltanto di salutarla. Il suo riapparire, su cui nessuno razionalmente contava, durò una ridotta frazione di tempo. La contessa era stata sempre ammirata e contesa da conti attuali, vecchi conti, antichi conticini e giovani contini, contabili, personaggi che al momento contavano, che avrebbero contato in futuro o che ormai non contavano più nulla, che avevano aperto o chiuso un conto, che avevano un conto in attivo, in sospeso, in rosso o in sofferenza, che contavano i giorni o che avevano i giorni contati, perfino da qualche sfrontato contadino del vicino contado. Per sopire la contesa, la contessa svanì nel nulla, sublimata nell’insieme vuoto.

Nell’osteria ciò che era rimasto e contava, per cui l’oste era tutt’altro che contento, era una caotica situazione. L’oste reclamava in contanti, senza alcuno sconto, il pagamento del conto totale relativo ai danni subiti. Era tutto in evidenza, non c’erano conti segreti o criptati. Si contavano danni materiali di vario grado ad arredi e materiali, tutta una serie di insiemi che, sommati alla pubblicità negativa, causavano una sottrazione di prestigio, una moltiplicazione di problemi, una potenziale se non addirittura esponenziale riduzione di clientela. Danni, insomma, che non si contavano sulle dita di una sola mano.

Trizio, Caio e Semprozio, insieme al fisico e al metafisico, tentavano di eclissarsi. «Datemi conto almeno voi!» gridò l’oste verso di loro. «Su chi potrò contare? Anche la mia cantina ha subito dei danni!» ripeteva a cantilena. «Ho fatto già un primo conto: mi ci vorrà un tempo x per accantonare la cifra necessaria per le riparazioni. Senza contare le spese per decontaminare il tutto da eventuali agenti nocivi». Infine un certo signor X, che sembrava contare più degli altri, al fine di risolvere contrasti e controversie, propose di versare un acconto per fronteggiare il conto-spese, forse contando di ottenere uno sconto sul totale.

I viaggiatori tornarono nel Viale delle Scienze. Il fisico (che in realtà era un fisico teorico, come disse congedandosi), ritornò alle sue astrazioni; il metafisico tornò alle sue speculazioni quotidiane; Trizio, Caio e Semprozio alle loro fiale, storte e alambicchi, che implicavano reazioni con altri elementi del laboratorio, colleghi a loro più o meno simili o diffusi nella concretezza della materia.

All’oste, visibilmente contrariato e rincantucciato scontrosamente dietro il bancone, a ricontare ancora n+1-volte tutti i danni di cui si rendeva tristemente conto, non rimase che risolvere il contenzioso e sottoscrivere il contratto senza altri contrasti. Incassò l’acconto che gli veniva offerto, ma, più scontento che contento, continuò a riconteggiare i danni quantificati dai contabili.

Come si suol dire, conta che ti passa!

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