Pubblichiamo questa intervista a Giuseppe Mingione, professore ordinario di Analisi all’università di Parma, vincitore di numerosi premi come la Medaglia Stampacchia, il Premio Caccioppoli e il Premio Amerio. Dal 2014 fa parte della lista “Highly cited researchers” dei ricercatori più citati al mondo.
D: Come è nata la passione per la matematica?
R: Inizialmente mi ero molto appassionato ai linguaggi di programmazione. Verso i quindici anni sapevo programmare abbastanza bene in vari linguaggi. Cominciai a trovarlo riduttivo e mi resi conto che le parti che più mi interessavano erano di fatto quelle teoriche, in cui si esponevano principi generali. Da lì a studiare libri di matematica piuttosto avanzati che avevo trovato negli scaffali di varie librerie, comprese quelle di casa, il passo fu breve. Leggere libri che trovavo da solo è un’abitudine che ho preso allora e che ho conservato per tutti gli anni universitari, anche per colmare certe lacune presenti nei corsi che seguivo. Col senno di poi, posso dire che è proprio questa abitudine che mi ha prima indirizzato e poi salvato.
D: Com’è stata la sua successiva esperienza in Italia o all’estero?
R: Per quanto riguarda l’Italia, è stata essenzialmente un’esperienza di isolamento. Di fatto, quasi tutti i collaboratori che ho avuto da quando sono a Parma non sono in Italia. A diciotto anni mi sono iscritto all’Università di Napoli, dove ho studiato per laurea e dottorato in matematica. Quello napoletano non è un periodo che ricordo con molto piacere. Mi sono presto spostato a Parma dove sono rimasto a sviluppare le mie idee da solo ma in tranquillità. Al mio arrivo ho trovato un ambiente piccolo, ma serio e accogliente, dove un giovane senza particolari relazioni, né accademiche, né di altra natura, poteva lavorare sereno. Qualche difficoltà all’inizio l’ho trovata, la comunità matematica italiana non è sempre apertissima con chi non viene da una cosiddetta scuola o gruppo accademico. Fortunatamente ho da giovane trovato supporto all’estero, dove si guarda di più ai risultati che alla provenienza, almeno fino ad un certo punto. Ho girovagato moltissimo, ho passato anni a viaggiare. Certo, a livello internazionale mi è totalmente mancato il supporto italiano, ma in fondo così vanno le cose per le persone indipendenti. Oggi ho acquisito una certa esperienza e osservo le cose un po’ da lontano, ma mi fa tristezza vedere la comunità matematica italiana dominata da meccanismi che, nella sostanza, sono tribali e autodistruttivi. E i risultati, soprattutto a livello internazionale, direi che si vedono. Potremmo essere tanto di più, ma preferiamo arroccarci in atteggiamenti provinciali.
D: Che consigli darebbe ad un nostro giovane lettore interessato a intraprendere il percorso di studio della matematica?
R: Uff, non è una domanda facile. Direi prima di tutto di scegliere un buon corso di laurea, con professori di chiara fama internazionale; anche Wikipedia e le banche dati aiutano a informarsi. Altrimenti si corre il rischio di perdersi in oscuri corridoi scientifici di provincia cui nessuno bada. E poi consiglierei di essere curiosi e aperti, di avere fantasia, di ascoltare gli altri ma di cercare sempre, almeno da un certo punto in poi, di sviluppare le proprie idee e un proprio gusto originale. Molti giovani (ma anche non giovani), decidono di lavorare su certi problemi solo perché così gli ha detto qualcuno, magari famoso e/o influente. Questo è in parte giusto poiché chi è bravo deve anche fare da guida, ed è certo vantaggioso per la carriera, ma alla lunga quest’abitudine non favorisce lo sviluppo di una propria personalità e porta al conformismo, che in fondo è il grande problema di tutta la comunità scientifica. Alla comunità non serve che tutti lavorino sulla stessa cosa, serve che si prendano direzioni diverse; la diversità è un valore che sorprendentemente molti matematici, abituati a logiche di scuola che finiscono poi per diventare autistiche, riconoscono poco.
D: Può spiegare ai nostri lettori il risultato da lei ottenuto di cui va più fiero?
R: Non saprei, non ne vedo esattamente uno in particolare. Mi sono sempre occupato di teoria della regolarità. Si tratta di stabilire quanto sono regolari (cioè continue, differenziabili etc) le soluzioni di equazioni a derivate parziali o minimi di funzionali. Ho affrontato varie questioni. In una prima parte della mia attività mi è capitato di dare delle stime per gli insiemi singolari di problemi ellittici e di dimostrare l’integrabilità ottimale delle soluzioni di certi sistemi parabolici. Si trattava di problemi aperti da parecchi anni, su cui avevano lavorato senza successo vari noti matematici. Con la loro soluzione ho introdotto alcune tecniche che sono poi diventate standard nella letteratura e oggi quei lavori sono molto citati e usati da tanti autori. Quello è un test importante: conosco pochi casi in cui un risultato importante in matematica non venga molto citato dopo qualche anno. Poi ci sono i falsi positivi, ma è un altro discorso. In tempi più recenti mi è capitato di lavorare in teoria del potenziale non lineare. Lì, con alcuni miei collaboratori, abbiamo dato delle stime ottimali che hanno permesso di unificare varie teorie diverse e risolvere alcune questioni aperte da tempo. La cosa divertente di queste stime è che riproducono esattamente le stime note per le equazioni lineari, e che quindi si basano su metodi lineari, nel caso di equazioni non lineari. A ripensarci, se dovessi salvare qualcosa di mio da proporre ai posteri, salverei proprio una di queste stime.
D: Tra i suoi articoli più citati figura il seguente: “Regularity of minima: an invitation to the Dark Side of the Calculus of Variations”. Come mai questa citazione al “lato oscuro” in pieno stile Star Wars?
R: Si tratta di un gioco che nacque originariamente con un mio vecchio collaboratore tedesco; ma andiamo con ordine, meglio contestualizzare. Intanto, si tratta di un lavoro di rassegna che riporta ed espande il contenuto di un ciclo di lezioni che diedi nell’ambito dell’edizione del 2005, la nona, della tradizionale Scuola Estiva di Paseky, dedicata a problemi di matematica applicata e organizzata ogni due anni dall’Università di Praga. Era stata fondata dal leggendario Jindřich Nečas ed è poi stata continuata dal nutrito gruppo di suoi allievi. Parliamo di personaggi di prestigio come Josef Málek e Vladimír Šverák. Come ho già detto, io mi occupo di regolarità, una branca dell’analisi che viene tradizionalmente considerata molto ostica. I motivi sono abbastanza chiari: ha un contenuto estremamente tecnico ed esige una precisione assoluta nelle dimostrazioni che o portano al risultato che si cerca o falliscono completamente, non lasciando spazio a eventuali “risultati di consolazione” (risultati non finali, con ipotesi non ottimali, intermedi etc). Non il massimo in tempi di publish or perish. Di fatto gli enunciati dei teoremi di regolarità sono molto brevi ed eleganti. Ogni matematico sa che sono proprio questi ad avere spesso le dimostrazioni più complicate. Sono però risultati molto utili perché riguardano proprietà di base delle soluzioni di equazioni alle derivate parziali e che quindi entrano come elementi di partenza in innumerevoli altre dimostrazioni in campi differenti.
A farla breve, in quegli anni la teoria della regolarità non era molto praticata e veniva considerata un lato oscuro anche da chi faceva calcolo delle variazioni. Il titolo viene fuori da quella circostanza. Oggi fortunatamente la situazione è cambiata e ci sono molte più persone che ci lavorano. Tra i migliori ci sono alcuni italiani: Camillo De Lellis, Guido De Philippis e Alessio Figalli. Raccogliendo l’invito dei colleghi di Praga decisi allora di scrivere le lezioni sotto forma di un lavoro (pubblicato poi su una loro rivista), in cui facevo il punto della situazione su alcune tematiche e includevo anche i principali risultati che avevo ottenuto sino ad allora. Il lavoro era largamente informativo, non conteneva dimostrazioni ed era fatto per dare una panoramica veloce e facilmente accessibile su alcune tematiche principali della regolarità. Insomma, uno stile diverso. Col tempo, forse anche grazie al titolo inusuale, è diventato un piccolo classico e ho incontrato in giro per il mondo tante persone che mi hanno detto di averlo letto con piacere; oggi lo vedo citato spessissimo come riferimento.
Era stato pensato come un “lavoro di servizio”, che potesse costituire un entry point per la teoria e da questo punto di vista credo abbia raggiunto il suo scopo. A questo proposito vorrei dire che, dato il carattere sempre più tecnico della Matematica, sta diventando difficile anche per i matematici più esperti avvicinare settori nuovi, che, visti da fuori, sembrano giungle affollate di lavori nelle quali il neofita si perde facilmente. Bisognerebbe scrivere più articoli di rassegna, magari con lo scopo di comunicare e di guidare. In altre discipline è una cosa usuale, nella matematica molto meno, anche se negli ultimi anni ho visto che la tendenza comincia a cambiare. All’epoca devo dire che la cosa non era molto comune (almeno per un lavoro di quelle dimensioni: il Dark Side supera le 70 pagine nel formato della rivista).
Siccome poi sono un fan di Guerre Stellari, mi divertii a dare ad ogni capitolo un titolo che parafrasasse quelli dei film della Saga. Per esempio, l’episodio “The empire strikes back” diventa “Irregularity strikes back”, che è il capitolo dedicato alle soluzioni irregolari che presentano singolarità, mentre invece “The return of the Jedi” diventa “The return of regularity”, un capitolo dedicato a risultati di regolarità per operatori più generali, e così via. Il lavoro si può trovare, sotto forma di preprint, a questo indirizzo.
D: Qual è la formula matematica più bella che vorrebbe condividere con i nostri lettori?
R: La formula della media per funzioni armoniche. Una cosa semplice ma che contiene in nuce tutta una teoria.
D: Cosa pensa della situazione della divulgazione della matematica in Italia?
R: Mi sembra buona ed in miglioramento. Vedo in giro parecchie conferenze divulgative di alta qualità. Ci sono persone che vi si sono dedicate molto come Roberto Natalini e che per questo andrebbero ringraziate. Come andrebbero ringraziate le persone che fanno funzionare le Olimpiadi della Matematica, una importante occasione di avvicinamento alla disciplina. (Per inciso, le Olimpiadi rischiano a volte di dare ad alcuni un imprinting non corretto. Nella realtà, per fare matematica, l’approccio diciamo così olimpionico, volto a risolvere cose in velocità e trattando casi particolari invece di privilegiare una visione più ampia e approfondita, può essere fuorviante e dar luogo a persistenti equivoci).
D: Quale libro di matematica consiglierebbe di leggere per scoprire la bellezza di questa disciplina?
R: È una domanda difficile. Dipende da cosa intendiamo. Ci sono dei grandi classici, come il libro di Courant e Robbins, che introducono concetti di base in modo naturale e leggero per il lettore, senza mai perdere in profondità. Su un altro verso, meno classico, consiglierei anche dei libri che avvicinano alla matematica parlando dei matematici. In questo caso però consiglio quelli scritti da matematici. Ne conosco uno bellissimo, di Stan Ulam, che si chiama “Avventure di un Matematico”. Un libro sulla matematica, ma anche sulla vita avventurosissima di questo incredibile matematico, che ha letteralmente attraversato la scienza di un intero secolo, passando tra le situazioni scientifiche e non più varie, dal fare matematica con Banach seduto ai leggendari tavoli dello Scottish Café di Lwów al lavorare con Fermi nei laboratori di Los Alamos. Un libro che appassiona e che fa vedere come la vita di un matematico sia fatta di profonda riflessione, ma anche di esperienze intellettuali stimolanti ed impreviste, di viaggi e occasioni, còlte e mancate.
D: Nella vita di ognuno ci sono degli incontri che cambiano la vita e ci aiutano a intraprendere la nostra strada. Può raccontarci qualcuno di questi?
R: Inutile dire che se a Napoli non avessi incontrato Nicola Fusco non staremmo qui a parlare. Mi indirizzò allo studio di tematiche che coltivo ancora e mi mise in contatto con una realtà che non era locale. I professori servono anche e soprattutto a questo: sono un punto di contatto col resto del mondo. Quando, naturalmente, il resto del mondo lo frequentano. Anche Emilio Acerbi ha giocato un ruolo importante nel mio ambientarmi a Parma; se oggi quel piccolo dipartimento che trovai al mio arrivo è una realtà conosciuta a livello internazionale è perché persone come lui hanno coltivato una politica di apertura dove altri hanno fatto endogamia fino a sparire dal panorama scientifico internazionale. Una buona abitudine che continua e che io ed altri, nel nostro piccolo, ci sforziamo di mantenere in vita. Tutti i giovani brillanti sono benvenuti da queste parti. Noi non guardiamo in faccia a nessuno, ma guardiamo al cervello di tutti.
D: Quali sono i suoi progetti di ricerca per il futuro?
R: Più che di progetti parlerei di programmi. Potrei dire di voler fare sempre meglio, ma forse sarebbe meglio dire che mi piacerebbe non declinare troppo. Gli anni passano e i matematici invecchiano rapidamente. In ogni caso mi propongo sempre di ampliare i miei orizzonti.
Giuseppe Mingione — La coincidenza De Giorgi – Nash (Pescara, 4 dicembre 2015, conferenza “John F. Nash: A Beautiful Mind tra economia e matematica”)
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