Pubblichiamo questo articolo scritto da Francesco Di Lauro, studente all’ultimo anno di dottorato in matematica applicata a modelli biologici alla University of Sussex.
Nell’articolo, si affronterà il tema del controllo di epidemie nell’ambito della Network theory, con una breve panoramica della complessità che si nasconde sotto la modellizzazione di una epidemia che si diffonde su una rete di contatti sociali. Infine, si parlerà delle moderne sfide dell’epidemiologia in questo ambito, con particolare enfasi sul contact tracing.
Introduzione
Ci avviciniamo al primo anniversario degli annunci di misure restrittive a seguito di epidemia da Sars-Cov-2. Inizialmente si parlava di restrizioni mirate, quarantene a chi testa positivo, ed in generale di misure locali. Ben presto però, il numero di positivi testati è cominciato a salire fino ad essere considerato fuori controllo, inducendo governi di tutto il mondo a prendere misure più o meno severe per limitare la diffusione del contagio.
Dopo un anno, appare chiaro che l’obiettivo di eradicare completamente la malattia sia irraggiungibile. In molti dunque si domandano come sia possibile che l’unica soluzione sia chiuderci in casa, e non si riesca a trovare una strategia migliore per arginare la diffusione del virus.
Vorrei dunque fare un piccolo excursus sui “problemi” che affrontano gli epidemiologi quando studiano una malattia che si diffonde su scala globale.
Iniziamo con il dire che l’epidemiologia è una disciplina incredibilmente vasta, ed ha bisogno di competenze che spaziano dalla matematica pura alla biologia da laboratorio, con molte sfumature al suo interno.
Il problema alla base è che la biologia che guida l’evento infezione di suo è complessa, dunque caratterizzare bene i profili di infettività, i tempi di recupero e tutti i parametri che informano la probabilità che una persona si infetti a seguito di un contatto con una fonte di contagio (sia essa un’altra persona, un luogo contaminato, un oggetto…), richieda spesso mesi di studi, se non anni. Con il Covid-19 poi, si è dimostrato che una percentuale variabile (a seconda dello studio) di persone positive al virus sia asintomatica.
Inoltre appare chiaro da studi pubblicati che si diventa infettivi prima di mostrare sintomi (in media un giorno prima). Dunque non è sempre chiaro capire se la persona di fronte sia chiaramente infettiva o meno. A ciò, aggiungiamo due fonti che complicano di molto gli scenari possibili, ovvero l’esistenza di nuove varianti, probabilmente più contagiose e letali, ed il rollout dei vaccini, la cui efficacia `e dimostrata solo nel ridurre la severità, non sul ridurre la trasmissibilità.
Supponiamo però di avere un modello del decorso di una malattia abbastanza verosimile, che ci permetta di poter iniziare a capire come questa malattia si diffonda in una popolazione.
I fondamenti
Il fondamentale modello, di cui oramai tutti gli interessati all’argomento hanno sentito parlare, è il cosidetto SIR. In tale modello, la popolazione è divisa in compartimenti, ovvero ogni individuo è suscettibile (S), oppure infetto (I), altrimenti rimosso (R).
Il modello dunque si caratterizza da equazioni della forma:
$\dot{S} \ =\ – \beta I S$
$\dot{I}\ =\ \beta I S – \gamma I $
$\dot{R}\ =\ \gamma I$
dove $\beta$ e $\gamma$ hanno in sé tutta la biologia del fenomeno, e sono legati a quanto è probabile infettarsi a seguito di un contatto e quanto tempo in media serve per smettere di essere infettivi, rispettivamente. Solitamente le condizioni iniziali sono della forma $I(0) = 1, S(0) = N-1, R(0) = 0$, dove $N$ è il numero di persone nel sistema che si studia.
Questi modelli sono detti ad homogeneous mixing, perchè se uno va ad interpretare le quantità a destra degli uguale, scopre che IS dovrebbe modellare il numero di contatti tra persone, ma questo significa che tutti sono in contatto con tutti. In una popolazione di 1000 persone ad inizio epidemia, un infetto avrebbe 999 contatti totali con persone sane, dieci infetti circa 10 · 990 = 9900 e così via.
Chiaramente ciò non è verosimile, dunque per fittare i dati che si osservano, dobbiamo caricare β di un significato che trascende quello biologico da cui eravamo partiti, rendendo il modello facilmente attaccabile. Dunque bisogna separare la parte “biologica” da quella “sociale”.
Reti sociali
Il problema più importante è caratterizzare la rete dei contatti tra le persone. In questo caso, ci viene in aiuto la teoria delle reti, disciplina nata più di tre secoli fa con il celebre lavoro di Eulero sui ponti di Koningsberg, poi sviluppata, tra gli altri, da personalità famosissime nella storia recente, quali Paul Erdős, Steven Strogatz, Albert-László Barabási.
L’idea è di immaginare le persone all’interno di una popolazione come nodi in un grafo, e di modellare i contatti tra persone come link che connettono nodi. Una persona malata dunque, può contagiare le persone con cui viene in contatto, e questo incide profondamente sul corso delle epidemie. Un esempio di ciò si può vedere in figura 1.
Per quanto un po’ difficile da notare senza entrare troppo nei dettagli, appaiono evidenti due fatti.
Il primo, è che se guardiamo intorno ad un nodo colorato di rosso osserviamo una tendenza ad avere vicini rossi anche essi. Questo tecnicamente significa che esiste una correlazione tra persone in contatto in termini epidemiologici, ovvero se una persona è infetta, i suoi contatti probabilmente sono infetti. Questo è il motivo per cui il Tracing è così importante, ad esempio.
L’altro fatto è che se si agisce su alcuni nodi, e si eliminano oculatamente alcuni link, possiamo dividere il grafo in due parti fondamentalmente sconnesse, di fatto partizionandolo in sottografi che possono essere visti come compartimenti stagni in cui l’epidemia, se non è già presente, non può entrare. Tutte queste proprietà si possono formalizzare sia con equazioni differenziali ordinarie, che di fatto modificano il modello SIR, sia con equazioni differenziali stocastiche più precise.
Come descrivere epidemie su network
Generalmente quando si approccia lo studio di epidemie su network, si guarda al fenomeno tramite equazioni differenziali stocastiche. L’approccio probabilmente più diffuso è quello dei processi Markoviani continui, in cui ogni nodo suscettibile diventa infetto ad un rate proporzionale ad una costante τ per il numero di nodi infetti con cui ha link. Una volta infetto, un nodo diventa infettivo fino a quando non smette, e ciò avviene ad un tempo distribuito esponenzialmente con un rate costante γ.
L’ipotesi di Markovianità risolve moltissimi problemi da un punto di vista analitico, e dei risultati che si conoscono, ma sfortunatamente ha, nascoste, delle assunzioni forti sulla biologia del fenomeno. Dopotutto, se il rate a cui gli infetti guariscono `e costante, significa che la probabilità di guarire dopo un tempo T da quando si diventa infetti è:
$$P(t>T) = e^{-\gamma T}$$
e similmente per la distribuzione di infettività. In verità si sa che questo non è (fortunatamente) vero, in quanto i profili tipici di tali distribuzioni hanno code molto più trascurabili, e generalmente non si è più infettivi già dopo due o tre settimane dall’inizio dei sintomi.
Per questo, piuttosto recentemente, si sta cercando di abbandonare questa visione in favore di processi non-markoviani, in cui cioè la probabilità di infettarsi o di guarire dipende da quanto tempo si è stati in contatto con un infetto o si è infetti.
Purtroppo tali modelli sono anche molto più difficili da approcciare analiticamente. In ogni caso, appare chiaro come, se ogni nodo ha tre stati possibili, il numero di equazioni per descrivere il sistema è 3N, chiaramente ingestibile per N abbastanza grande. Questo ci mostra come si è costretti a guardare a statistiche aggregate, come ad esempio il numero di infetti al variare del tempo, e studiare quelle.
Reti di contatto reali
L’esempio in figura 1 è un celeberrimo toy-model, chiamato Zachary Karate- club, vi invito a leggere la sua storia perché interessante. Ciò detto, la realtà è sicuramente più complicata di così.
Innanzitutto la rete dei contatti sociali è estremamente più complicata e densa di questa. Per fare un esempio, riportiamo un frammento minuscolo di una rete sociale virtuale (Facebook), in figura 2.
L’utilizzo di reti virtuali come proxy di reti reali è tipico nella letteratura epidemiologica.
Si notano molti fenomeni interessanti. Per esempio, si nota che andando verso destra, il numero di contatti per nodo tende ad aumentare. La legge con cui ciò avviene è a potenza, ed in effetti si può mostrare che questo fenomeno, detto invarianza di scala, è tipico di tante rete sociali.
Esistono infiniti studi su come epidemie su tali reti si propagano, proprio perché queste reti sono davvero quasi universali. Il fenomeno più interessante di queste reti è la ”robustezza fragile”. Ciò significa che, se tagliamo dei contatti a caso, molto probabilmente la rete rimarrà connessa, ed in termini epidemiologici non riusciamo a fermare i contatti. Viceversa, con interventi mirati, la connettività della rete viene ridotta talmente tanto da avere un impatto enorme sull’epidemia.
Meritano una menzione anche altri aspetti fondamentali, di cui siamo a conoscenza, ovvero l’esistenza di comunità. Pensiamo a gruppi di amici che sono sempre in contatto tra loro, ed hanno molti meno contatti con altri gruppi. Allo stesso tempo, ci sono dei motivi fondamentali, ad esempio il triangolo, ovvero tre nodi che sono in contatto tra loro, come le famiglie. Anche la presenza di triangoli è degna di nota ed è fondamentale nella modellizzazione delle epidemie.
Policy attuabili
Alla luce di tutto questo, ci si domanda come mai non si provi ad adattare tutte le conoscenze sviluppate in decenni di epidemiologia su reti all’approccio pandemico. Purtroppo ci sono più motivi.
Il primo, non per importanza, è la dinamiciTà delle reti. In una giornata normale, si tende sì ad avere un gruppo di contatti abbastanza fisso, ad esempio famiglia, amici, colleghi di lavoro, compagni di scuola… ma anche contatti che si hanno per strada, al supermercato, al bar, in vari negozi. Modellare dunque un processo epidemiologico su una rete che è essa stessa dinamica diventa estremamente più complicato, specialmente se consideriamo l’interplay che esiste tra i due fenomeni (se so che tutti i miei conoscenti si stanno ammalando, prendo più precauzioni).
Ma, il motivo forse più stringente, è che, generalmente, della rete sopra conosciamo qualcosa che si avvicina più a figura 3.
Questo significa che siamo fondamentalmente ignoranti riguardo la topologia delle reti sociali.
Grazie ai Big Data, conosciamo quali caratteristiche e proprietà hanno, ma non sappiamo quali nodi hanno quali contatti nel particolare, o quali siano i nodi su cui intervenire.
Questo purtroppo riduce estremamente le possibilità reali di azioni. Ad esempio, una strategia che sembra sensata sarebbe quella di isolare i più a rischio. Suona bene, ma cosa significa in termini di interventi su una rete di cui non si conosce bene la topologia? Questo ci porta alla più dolorosa delle azioni possibili: tagliare contatti tout-court, sapendo che lo sforzo sarà estremamente inefficiente.
Possibile via di uscita
Tenendo conto quindi la complessità del problema e la limitatezza delle risorse reali, l’unico momento in cui è realisticamente possibile agire è quando la prevalenza è molto bassa.
Durante questa finestra, infatti, il sistema di test-tracing si può vedere come una esplorazione locale della rete centrata attorno ai nodi che sono certamente positivi.
In termini di ciò che succede realmente, questo si traduce nel fatto che, quando si hanno pochi casi diagnosticati positivi, uno Stato può avere la capacità logistica e le risorse per tracciare gli eventuali contatti e isolarli in modo da far spegnere tempestivamente ogni cluster epidemico.
Fino a che la prevalenza rimane bassa, questo tipo di interventi possono servire a rallentare molto la crescita dell’epidemia.
Il problema dunque diventa di allocazione di risorse: i mezzi di uno Stato sono finiti e se crescono, possono al più crescere linearmente; un’epidemia, come abbiamo, purtroppo, potuto constatare, se non controllata abbastanza, accelera la sua crescita non linearmente, e addirittura in una prima fase esponenzialmente, diventando ingestibile semplicemente tracciando ed isolando.
A questo punto, tornando al discorso del paragrafo precedente, un drastico taglio dei contatti, un lockdown totale appunto, serve per riportare il più velocemente possibile il numero di nuovi contagi ad un livello in cui un’azione di controllo meno invasiva sia possibile e permetta di tornare ad avere una socialità.
Bibliografia
- Zachary’s karate club: https://en.wikipedia.org/wiki/Zachary
- Teorie e simulazioni di epidemie su reti: https://arxiv.org/abs/1408.2701
- Software per fare simulazioni su reti in Python: https://epidemicsonnetworks.readthedocs.io/en/latest/
- Sito interessante dove trovare reti di ogni tipo: http://networkrepository.com/
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L’articolo è molto interessante, tuttavia la conclusione, in particolare l’ultimo paragrafo (in cui si dice che un lockdown totale serve a ripristinare una buona capacità di tracciamento e a tornare ad avere una socialità) mi lascia molto perplesso.
Dipende anche come si interpreta la frase: se si vuole dire che un lockdown può rivelarsi utile allora posso capire, se “serve” vuol dire “è necessario ed è la soluzione migliore” non posso essere d’accordo.
Certo, in linea teorica funziona, e anch’io qualche mese fa pensavo che il tracciamento potesse reggere molto di più, ma i modelli matematici sono una cosa (sono fondamentali, da studente di ingegneria non potrei pensarla diversamente, ma è altrettanto fondamentale tenere conto dei limiti dei modelli), la realtà è un’altra. E bisogna adattare i modelli alla realtà, non viceversa.
Il punto è che noi un lockdown pressochè totale l’abbiamo già fatto, ed è durato 2 mesi. E’ parzialmente servito, ma resto convinto che dare tutti i meriti del calo dei contagi al lockdown sia stato un grave errore che condiziona tuttora molte analisi; non si può non tenere conto che altri fattori e condizioni al contorno erano più favorevoli rispetto ad ora, in primis il fatto che il virus fosse diffuso davvero solo in 4 o 5 regioni su 20, e in secundis il fatto che si andasse verso la primavera inoltrata.
Fatto sta che la curva dei contagi, per diversi fattori, si è abbassata drasticamente e il tracciamento è diventato possibile.
E poi? Siamo tornati ad avere una socialità, e non certo quella di prima, ma con delle regole: mascherina al chiuso (e poi all’aperto), distanziamento dove possibile, discoteche chiuse dopo ferragosto, poi ristoranti chiusi dopo le 18, poi cinema, teatri, palestre, piscine chiusi, poi coprifuoco, poi regioni colorate, università e scuole superiori chiuse, e in più aggiungiamoci contact tracing rinforzato e terapie intensive aumentate.
Il risultato è che è andata secondo me meglio che nella prima ondata (certo, il numero dei decessi è maggiore da settembre in poi, ma le condizioni di partenza, col virus diffuso ovunque in Italia, e diversi mesi freddi in arrivo, erano troppo diverse tra le due ondate, a sfavore della seconda) ma nonostante tutto a inizio autunno il tracciamento è saltato ugualmente, come anche nel resto d’Europa.
Secondo l’ISS il tracciamento potrà essere ripristinato davvero solo quando scenderemo a meno di 50 casi ogni 100.000 abitanti. Ebbene, nell’ultima settimana queste condizioni sussistono in 5 province su 107, in 1 regione su 20 (la Valle d’Aosta, che nell’ultima settimana ha avuto 49 contagi ogni 100.000 abitanti). E il bello è che non avevamo così pochi casi alla settimana da ottobre!
Nel frattempo, diversi Paesi europei sono messi peggio di noi attualmente.
Non so, ma a me sembra che si stia inseguendo una chimera.
Peraltro, non si può neanche dire che altri Paesi europei siano stati con le mani in mano; le hanno provate letteralmente tutte negli ultimi mesi!
C’è chi ha chiuso le scuole, c’è chi ha chiuso le palestre, chi i ristoranti, chi i ristoranti ma dopo le 18; c’è chi ha fatto il coprifuoco alle 18, chi alle 22, chi alle 13 ma nei weekend, chi lo fa di 24 ore al giorno da più di un mese come l’Austria (senza chissà quali risultati). C’è chi ha fatto il lockdown a settembre come Israele (ok non è europeo but still) e non mi pare che abbia risolto molti problemi a lungo termine, c’è chi l’ha fatto a ottobre (e poi a dicembre) come l’Irlanda, c’è chi l’ha fatto a novembre, chi a Natale, chi da dicembre a febbraio come la Germania…e potrei continuare.
Eppure, mi sa dire un Paese europeo (ma potrei dire un Paese occidentale in generale…mi accontento di poco) in cui il tracciamento stia funzionando, e questo sia stato reso possibile grazie ad un lockdown totale? Quindi escludendo quei 3 o 4 Paesi molto favoriti da condizioni geografiche e demografiche, come Islanda, Finlandia, Norvegia, Bielorussia, che peraltro non mi pare abbiano fatto lockdown totali recentemente.
A me non ne viene in mente nessuno. Ne deduco che quest’obiettivo, in pieno inverno, non sia altro che una chimera.
E non ho neanche accennato a considerazioni per nulla secondarie che riguardano problemi sociali, economici, di tenuta psicologica della società, di istruzione. Ovvero, dal punto di vista matematico magari conviene fare un lockdown totale di 1 mese ogni 3 (numeri a caso solo per fare un esempio…ma allora perchè non tutto l’anno? Tanto se si resta su un piano ideale…), ma è fattibile nella realtà? Che costi ha? Siamo sicuri che in pieno inverno i costi non siano superiori ai benefici, tenuto conto che un lockdown totale di diversi mesi impatta clamorosamente di più sulle fasce più deboli della popolazione?
Mi rendo conto che non è suo compito parlare di questi aspetti, ma chi governa e prende le decisioni deve per forza di cose avere una prospettiva più ampia e olistica.
D’altra parte, lei stesso nei primi paragrafi dell’articolo sostiene, per me giustamente, che “appare chiaro che l’obiettivo di eradicare la malattia era (ed è, aggiungo io) irraggiungibile”.
Dunque, qual è lo scopo di un lockdown totale? Se è ripristinare il tracciamento, ripeto che durante i mesi più freddi mi pare una chimera, dati alla mano.
A me sembra solo che così facendo si riduca il problema (ma di quanto, d’inverno?) e lo si rimandi nel tempo (di nuovo: ma di quanto, d’inverno?) o forse meglio ancora si “spalma” il problema nel tempo, ma al contempo crea altri problemi che forse a lungo termine sono ancora più grandi. Senza una exit strategy, dal momento che l’eradicazione completa è praticamente impossibile (nemmeno in Cina e Australia ci sono riusciti, e contiamo che in Australia ora è piena estate), mentre sull’immunità di gregge, che provenga da immunità naturale o dai vaccini, mi sembra che da profano sussistano ancora varie incognite, tra cui:
a) non sappiamo se i vaccini siano sterilizzanti e proteggano dall’infettare altre persone;
b) non sappiamo se saranno efficaci contro le diverse varianti del virus;
c) non sappiamo quanto durerà l’immunità derivante dai vaccini;
d) alcuni vaccini, tipo Astrazeneca, mi pare che non abbiano fornito dati sufficienti sull’efficacia per gli over 65 (il che è un controsenso clamoroso, se pensiamo che gli over 65 rappresentano circa il 90% dei decessi Covid) e zero dati per gli under 16, dato che non erano ammessi ai trials;
e) non sappiamo quanto ci vorrà a vaccinare una percentuale della popolazione che sia sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge.
Contando tutto ciò, non so quale sia la “soluzione” migliore, o quella ottimale, che minimizzi i danni, ma penso di poter concludere che un lockdown totale non sia nemmeno auspicabile, figuriamoci necessario.
Poi se ci sono errori nella mia analisi e avrà tempo di rispondere mi faccia sapere. 🙂