Pubblichiamo questa intervista a Riccardo Giannitrapani insegnante di matematica e fisica e autore del libro “Un labirinto incerto. Appunti per una poetica della matematica”

Il libro può essere acquistato, per esempio, qui e qui.

 


Qual è la tua formazione? Qual è stato il percorso che ti ha portato a diventare insegnante?

Da ragazzo avevo la passione dell’astronomia che mi ha spinto inevitabilmente verso la scelta
universitaria. Mi sono laureato in Fisica con una tesi sulla Relatività Generale che mi ha fatto
innamorare degli aspetti formali e matematici del mondo. Ho conseguito successivamente
un Dottorato di Ricerca in Fisica lavorando per alcuni anni sulle strutture matematiche
della fisica quantistica e sul concetto di tempo. Dopo svariati anni di borse post-doc e assegni
di ricerca, dal 2005 ho deciso di iniziare a insegnare alle superiori, scelta di cui non mi sono
mai pentito. Adesso la mattina in classe studio un tipo diverso di universo, ma altrettanto meraviglioso
ed in espansione.

Com’è nata l’idea di scrivere il libro “Un labirinto incerto. Appunti per una poetica della matematica?”
Dopo aver pubblicato sul mio blog un Manifesto per un nuovo insegnamento della matematica, sono stato contattato dalla casa editrice che mi ha proposto un progetto editoriale. Non sono uno scrittore e mai avrei pensato di andare oltre qualche pensiero sfuso sulla mia pagina personale. Ho visto però l’occasione per poter ragionare su cosa significhi parlare di matematica in senso generale e per cercare di mostrare alcuni suoi punti di contatto con l’agire poetico, unendo
così la mie due grandi passioni. Il libro non intende essere un manuale o una raccolta di buone pratiche, ma evidenzia (spero) quelli che potrebbero essere spunti di riflessione per chi deve portare avanti un discorso matematico quotidiano o per chi vuole provare a riavvicinarsi alla matematica da un punto di vista leggermente diverso. Non dico cose nuove e non dico cose rivoluzionarie, ma cerco di costruire un discorso onesto sullo stupore di fronte a determinati orizzonti: il sottotitolo del libro contiene la fondamentale parola “Appunti” a indicare una natura aperta del libro. Non rappresenta dunque un’aula, ma un cantiere o, ancor meglio, una palestra.

Per chi è pensato il testo?

Quando l’ho scritto ho pensato principalmente ai miei studenti ed alle mie studentesse e di riflesso ai miei due figli, ma in realtà penso che sia rivolto in generale a qualsiasi persona, adulta o meno, che abbia un conto in sospeso con la matematica. Un libro per fare pace.

Come è impostato il libro?

Ho deciso da subito che non potevo scrivere un libro sulla matematica senza parlare il linguaggio della matematica. Mi rendo conto che questo possa in qualche modo ostacolarne la lettura, ma la matematica deve essere praticata, idealmente il libro andrebbe letto con una matita e qualche foglio a portata di mano. Per quanto riguarda la struttura dei capitoli ho cercato di parlare principalmente di cosa non sia la matematica sgombrando quindi il campo da una serie di fraintendimenti e luoghi comuni che purtroppo sono piuttosto diffusi nel mondo adulto. Ho poi cercato di mostrare esempi concreti parlando di infinito (in modo finito) e della natura dei numeri, due esempi paradigmatici di strutture comuni del discorso matematico.

Nella prefazione del libro scrivi:

“qui presento considerazioni sulla matematica perché ritengo necessario ripensarne l’insegnamento e cambiare, anche di poco, i termini e le finalità del discorso: spostare l’accento dal dominio della tecnica (fondamentale) a quello del valore culturale (indispensabile)”.

Puoi spiegare ai nostri lettori questa idea di fondo?

Spesso la matematica è relegata ad una specie di materia tecnica che serve per fare calcoli, uno strumento ed un linguaggio utile per le discipline scientifiche e tecniche in generale, o anche comodo per fare la spesa o leggere un grafico. È chiaro che c’è tutto questo, ma ho voluto mostrare prevalentemente che la matematica è molto altro ed ha un valore culturale intrinseco e indipendente dalle molteplici e meravigliose applicazioni di cui è protagonista. Credo che a parte alcuni casi specifici in cui è importante dotarsi di attrezzatura specifica, il valore della matematica, sia nel discorso collettivo che in quello educativo, dovrebbe essere cercato in questa sua natura astratta e avulsa dal mondo reale. La matematica mostra chiaramente un mondo che non esiste decisamente più interessante di quello che c’è fuori.

Il primo capitolo si apre con la seguente citazione di Tomas Transtromer:

“Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti. I vicini venivano ad ascoltare”

Perché hai scelto questa citazione per iniziare il capitolo e perché, come scrivi prendendo spunto da questa citazione, la sostanza del tuo mestiere di insegnante è seprare le note dal rumore?

Tomas Tranströmer (fonte Wikipedia)

La poetica di Transtromer mi è molto cara per vari motivi che cerco, in parte, di spiegare nel libro. Questi versi mi sono sembrati perfetti per il mestiere che faccio. Insegnare matematica a degli adolescenti significa spesso suonare una musica meravigliosa ma che non sempre si può udire. Alle volte mi rendo conto di insistere su qualche concetto perché a me piace ma che non risuona minimamente in chi mi sta davanti. Questa melodia nascosta bisogna tirarla fuori, separarla da tutto il resto (i compiti, le interrogazioni, le ore interminabili che studenti e studentesse sentono pesare a volte come macigni). C’è molto rumore intorno a note fragili, insegnare matematica consiste spesso nell’ascoltare i silenzi della classe.

Il secondo capitolo, è incentrato sui luoghi comuni sulla matematica. Ce ne è uno che vorresti anticipare ai nostri lettori?

La matematica viene spesso considerata arida, una specie di dominio del meccanico, del ripetitivo, del già tutto scritto, basta una formula. Cerco di spiegare che non esistono formule, che la matematica come ogni altro edificio del sapere è fragile, imprevedibile, assolutamente non meccanica. Non è un edificio perfetto, ma un labirinto incerto.

Il terzo capitolo dal titolo “un’ombra d’infinito”, parla dell’infinito che tu indichi come “una delle melodie nascoste che la matematica ci ha donato”. Che criteri ti hanno guidato per scegliere gli argomenti da trattare in questo capitolo dal tema così vasto?

Come in altre parti del libro sono partito da un racconto di Borges come spunto per parlare di infinito. Ho cercato in particolare di mostrare tecnicamente alcune
caratteristiche dell’infinito evitando dove possibile un formalismo eccessivo, ma senza rinunciare ad un approccio formale. La possibilità in matematica di trattare e studiare grandezze infinite è forse una delle più grandi conquiste intellettuali, o almeno a me appare così. Le serie infinite, i numeri irrazionali, le frazioni continue, tutte strutture che risuonano insieme e di cui ho cercato di evidenziare il senso di vertigine.

Wisława Szymborska (fonte Wikipedia)

Il quinto capitolo, affronta il tema di ricercare una poetica della matematica prendendo spunto dalle parole di Wislawa Szymborska, premio nobel della letteratura. Il capitolo è davvero molto interessante e credo centrale nel libro. Ti chiediamo, rimandando ovviamente i nostri lettori alla lettura completa del libro, di anticipare almeno il perché dei riferimenti a Wislawa Szymborska e a Jorge Luis Borges.

Sono figure molto diverse nel panorama letterario, ma hanno un comune denominatore, la loro ricerca di un’universale poetico è simile all’agire matematico. Almeno questa è la tesi del libro e, in particolare, di quest’ultimo capitolo: la voce poetica trascende il mondo fisico, cerca un altrove dove definire piccoli nuclei di stupore, di significato, altri panorami meno contingenti. Lo stesso, credo, avviene in matematica dove la costruzione di strutture via via più generali, astratte e slegate da istanze particolari è un percorso ormai avviato da molto tempo, percorso che ha permesso di emancipare la ricerca matematica da giustificazioni utilitaristiche. Un po’ come la letteratura e l’arte in generale.

Veniamo ora a domande di carattere più generale.

La tua carriera di insegnante è iniziata “tardivamente”. Come mai?

Per molti anni, dopo la laurea e il dottorato, ho preseguito come mi sembrava naturale il percorso all’interno del mondo accademico. Ho cambiato numerose volte gruppo di lavoro, città, argomento di ricerca. È stato un periodo professionalmente ricco e variegato, ma non ho trovato quello che cercavo. Quando mi si è presentata l’occasione di entrare a scuola ho deciso di provare. Con molti dubbi e temendo la nostalgia del mondo della ricerca. Come ho già detto prima, non mi sono mai pentito. A volte mi mancano alcuni aspetti del mio breve periodo accademico, ma l’interazione quotidiana con studenti e studentesse, la necessità di studiare in continuazione per costruire sempre nuove strade, la ricerca di stimoli per loro e per me, l’esplorazione di un terreno comune, tutti questi fattori e molti altri hanno reso negli anni questo passaggio del tutto naturale e ricco. Mi sento fortunato.

Rispetto ai primi anni d’insegnamento ci sono stati degli errori che pensi di aver fatto e delle cose che hai appreso dai tuoi studenti, visto che come tu stesso scrivi nel libro, insegnare significa anche convivere con il dubbio?

Tantissimi e tantissime. Ho commesso molti errori e ne commetto anche adesso, di continuo. Ma come cerco di insegnare (la matematica in questo è ottima), l’inciampo è a volte necessario per determinare una strada migliore. E sono tantissime le cose che imparo quotidianamente da studenti e studentesse, sono una miniera di idee e dubbi (appunto). Da questo punto di vista insegnare non ti permette di fossilizzarti, è necessario reinventarsi periodicamente, aggiornarsi, cercare nuove strade, correggere la propria pedagogia. Molto è cambiato, per esempio, sul modo che ho di valutare e di gestire in generale il processo di verifica degli apprendimenti.

Sei molto attivo anche in rete. Hai un sito (http://orporick.github.io/ ) e un account Twitter molto seguito. In qualche modo possiamo dire che ti dedichi a fare divulgazione matematica e fisica ad ampio spettro. Perché hai fatto questa scelta?

Ho iniziato a sentire l’esigenza di parlare di quello che facevo, studiavo, sentivo, provavo anche al di fuori dell’aula scolastica. Credo molto nel valore politico della matematica (per usare un tema caro a Chiara Valerio) e ancor di più nel valore politico del parlare di matematica. Ovunque sia possibile. Da questo punto di vista ho iniziato a pensare al confine tra didattica e divulgazione come molto più sfumato di quello che normalmente si pensa, per me se una cosa la porto in classe a ragazzi e ragazze deve poter essere portata, in una certa misura, anche fuori, nel mondo adulto.

Fra i testi del sito uno particolarmente bello “Manifesto per una guerriglia matematica”.Come è nata l’idea di scriverlo?

Un anno non avevo quinte e ho dato la mia disponibilità a studenti e studentesse dell’ultimo anno della mia scuola di trovarci per prepararci qualche settimana prima dell’esame di stato conclusivo. Abbiamo iniziato a trovarci in pochi in un bar del centro di Udine e dopo un po’ quei pochi sono diventati molti e ci siamo accorti di attirare la curiosità di chi era entrato solo per prendere il caffè. Ho accarezzato a lungo l’idea di estendere quella esperienza, di iniziare a fare matematica nei bar, nei parchi, sugli scalini di una chiesa. Una guerriglia non strutturata ma che potesse portare la curiosità nei luoghi comuni della città. Da qui ho scritto il Manifesto, poi la pandemia ha congelato tutto. Ma è una di quelle cose che mi piacerebbe portare avanti non appena sarà possibile.

“Scabarocchi” di Riccardo Giannitrapani (fonte: behance.net/gallery/85673103/Pencil-sketches)

Oltre alla passione per a matematica, la fisica e la poesia, sei appassionato anche di disegni e acquarelli come è nata questa passione e in che modo la pratichi anche a scuola durante i “compiti in classe”?

È nata con la nascita del mio primo figlio, volevo in qualche modo poter usare le mani e un foglio per qualche futile tentativo di fermare il tempo. E poi è diventata quasi subito e in modo naturale un’attività durante i compiti in classe, l’espressione della solitudine (mia e della classe) durante quelle ore. Negli anni ho cambiato modalità e tecniche, non sono mai diventato veramente padrone del mezzo, ma porto sempre con me un paio di tappi pieni di colori e un po’ di acqua, non si sa mai.

Durante la pandemia, come molti insegnanti, hai “reinventato” il tuo modo d’insegnare adattandolo alla didattica a distanza. Ne sono usciti, fra le altre cose, dei video davvero belli. In che modo secondo te la scuola potrebbe cogliere in positivo alcune delle sfide che la pandemia ha imposto?

Sotto vari aspetti, anche se ultimamente tendo ad essere pessimista e mi sembra che lentamente la scuola stia tornando ad una “normalità” sprecando qualche occasione (ovviamente è il mio personale punto di vista). Non è stato solo l’uso di nuove tecnologie, un processo già in atto da tempo nella scuola e che la pandemia ha semplicemente accelerato. L’uso di lezioni a distanza, di video, di materiali multimediali è qualcosa che probabilmente ci porteremo dietro, personalmente continuo a fare video sul mio canale anche adesso che, più o meno, siamo in classe. Ma è proprio il dialogo educativo che è mutato in quei mesi terribili in cui le scuole sono rimaste chiuse. La classe senza classe, il doversi e potersi misurare anche senza la presenza, la necessità di molti studenti e molte studentesse di un contatto, di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparsi. Ho imparato molto in questi due anni, ho cercato di costruire un rapporto molto più stretto con le classi che non si basi necessariamente sui modelli cattedra-banco, ho tentato e tenterò nuove forme di valutazione senza (o con pochissima) misurazione. Soprattutto ho imparato ad ascoltare. Nell’acronimo DAD è stato dato molto rilievo (anche troppo) alla seconda D, mentre è sempre stata la prima D l’unica cosa veramente importante. Posso forse riassumere con qualcosa che già pensavo prima, ma che la pandemia ha rafforzato in me, per insegnare bisogna voler bene: al proprio mestiere, alla propria materia, a noi stessi, ai nostri studenti ed alle nostre studentesse.

Su Twitter spesso parli della situazione attuale della scuola prendendo anche posizione su alcune cose che accadono. Quali sono le principali problematiche che in questo momento, almeno dal tuo punto di vista, vedi nella scuola italiana?

Pensando alla mia materia e rischiando di essere banale, trovo la mancanza di una visione generale su cosa significhi insegnare matematica, su quali siano gli obiettivi formativi, didattici, umani, politici (nel senso alto e collettivo del termine) del parlare di matematica in classe. Mi sembra, ma magari è un problema mio, che manchi una visione condivisa e di insieme su cosa vogliamo insegnare. Non è solo questione di contenuti (anche se qualcosa si dovrebbe forse dire e fare, siamo fermi all’ottocento) ma soprattutto di finalità. Alle volte ho come l’impressione che ci venga chiesto di insegnare matematica perché si è sempre fatto, perchè è giusto così, perchè serve. Ma poi nessuno dice veramente in che modo serva tutta questo sforzo. È chiaro che la matematica rientra nell’orizzonte formativo e lavorativo su lungo periodo di molti studenti e molte studentesse, ma per tutti gli altri? Davvero insegnare a manipolare meccanicamente smisurate espressioni algebriche (e non, per esempio, cosa siano i numeri p-adici) è formativo per tutti e tutte? Non ho chiaramente risposte, ma mi mi sembra che nessuno stia ponendo nemmeno la domanda. Avevo avvertito, sono stato banale.

Cosa pensi, invece, dell’attuale panorama divulgativo italiano nel campo della matematica e delle fisica? Come pensi interagisca con il mondo della scuola?

I libri divulgativi di scienza sono esplosi negli ultimi decenni e credo sia un bene. C’è evidentemente molta sete ed è positivo che sia in atto una risposta così ampia e variegata, anche se certi settori sembrano inflazionati più per questioni di moda che di reale interesse della società. A titolo di esempio quando è mancato Stephen Hawking ho letto tantissimo cordoglio in rete, salvo poi scoprire che quasi nessuno aveva idea di cosa avesse detto in vita. L’unica cosa che lamento è a volte una sorta di ipersemplificazione, l’idea che tutto debba arrivare a tutti senza sforzo o quasi. Probabilmente dipende in qualche misura dal fatto che viviamo in una società iperconnessa dove le informazioni sono diventate troppe, dove tutti possono in qualche modo dire e parlare di tutto ed è difficilissimo pretendere una pausa. Se in libreria vedo un libro che ha nel titolo la parola “Equazione” e poi sfogliandolo non ne trovo nemmeno una (di equazione intendo) credo che si sia rotto qualcosa, una sorta di tacito accordo tra chi scrive e chi legge: io cerco di portarti in cima a questo monte, ma tu devi spendere del tempo e della fatica. Rimane sicuramente un fatto positivo vedere interi scaffali dedicati alla scienza ed alla matematica.

Per concludere, ti chiediamo se ti senti di consigliare agli insegnanti che ci seguono, dei libri che secondo te dovrebbero essere presenti nella “libreria idea” dell’insegnante di matematica e fisica.
A parte i classici che tutti e tutte sicuramente conoscono (il Courant-Robbins è il primo che mi viene in mente), ultimamente cerco sempre di consigliare a studenti e studentesse (e anche a colleghi e colleghe) laddove possibile testi di autrici; non sempre è facile e non sempre riesco, c’è un enorme sbilanciamento di genere anche editoriale (ho impiegato un po’ a vederlo dal mio punto di vista privilegiato, ma adesso lo vedo chiaramente), molto si sta muovendo e credo che sia necessario contribuire, ognuno e ognuna nel proprio piccolo. Per esempio (giusto per non rimanere nel vago) trovo interessanti i libri di Eugenia Cheng (tradotti in parte anche in italiano). E ho recentemente riletto e usato in parte in classe il libro di Rebecca Goldstein sull’incompletezza di Goedel. Personalmente mi sento anche di consigliare vivamente l’uso di testi storici originali in classe e per studio personale. In rete si trovano copie scansionate che molte biblioteche mettono a disposizione e portare in classe le parole originali (perché no anche in altra lingua) di Newton, della Meitner, di Einstein o della Noether è una opportunità didattica di alto valore storico, culturale, tecnico (leggere Eulero è istruttivo anche nel 2022) e, perché no, poetico.

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