Bazzico il mondo delle divulgazione scientifica, in particolare matematica, dal 2015.
Lo faccio in modo che penso si possa definire “amatoriale” (non ho fatto, per esempio, master in comunicazione scientifica) essenzialmente per passione.
Rispetto ad alcuni divulgatori Italiani che sono sempre stati un mio punto di riferimento (in particolare Roberto Natalini e tutto il gruppo di MaddMaths, i Rudi Mathematici, Maurizio Codogno, ecc…) faccio divulgazione da molti meno anni. Ma iniziano ad essere abbastanza per poter avere qualche opinione spero non banale.
In realtà guardandomi indietro sono sempre stato un fruitore della divulgazione e, vista la mia età, lo sono stato anche in epoca “pre internet“.
Appartengo alla generazione di laureati in discipline scientifiche che è cresciuta a pane e Quark e si è appassionata alla scienza leggendo la sera tardi libri di divulgazione scientifica che all’epoca riuscivo a trovare nelle librerie (spesso nel reparto più nascosto delle stesse).
Ricordo che divoravo quei libri. Pur di finire un capitolo restavo in piedi di nascosto sotto le coperte con la torcia (o forse i miei genitori erano così furbi da far finta di volermi obbligare ad andare a dormire e generare in me la passione della lettura di quei libri associandola al proibito).
Passavo ore a vedere documentari sugli animali che probabilmente per gli standard di adesso sarebbero ritenuti abbastanza noiosi…
Insomma ho una età che mi ha permesso di vivere un po’ tutte “le epoche” della divulgazione (dal libro ad internet passando per la televisione).
Inizio qui un primo articolo per condividere con voi alcune riflessioni, probabilmente impopolari e minoritarie, sulle tendenze della divulgazione scientifica di questi ultimi anni.
Sono ovviamente mie opinioni e, come tutte le opinioni potrebbero essere affette da distorsioni (ma adesso va di moda dire “bias”) da selezione o da conferma (per approfondire leggete qui questo articolo di Marco Menale di MaddMaths). Nei commenti o sui social chiunque vuole potrà correggermi e dire la sua.
Le condivido però perché, secondo me, si stanno affermando alcune tendenze che trovo abbastanza pericolose per i meccanismi che innescano.
Inizio dalla prima tendenza che chiamo “effetto tik tok” ovvero realizzare video divulgativi che nel tempo stanno diventando sempre più brevi. Poiché la gente sta su tik tok (ma metteteci pure i social analoghi come Instagram è lo stesso discorso) la divulgatrice o il divulgatore che puntano a farsi conoscere aprono un profilo sulle piattaforme che lo permettono e iniziano a caricare di 180 secondi con l’obiettivo di attirare utenti.
Si potrebbe dire che non c’è nulla di male nel farlo. E’ un mezzo come altri.
In fondo la generazione precedente di divulgatori ha usato strumenti come i blog per farsi conoscere e ora si fanno i video. Il problema è che:
- ci sono vari modi per fare questi video (per esempio, per la matematica trovo eccezionale 3Blue1Brown ): un parte importante di questi li trovo di dubbia qualità, improvvisati e tendenti ad essere sempre più brevi in “stile tik tok” con contenuti, per forza di cose, banali o banalizzati;
- i video stanno sostituendo la divulgazione scritta sul web con l’idea (che ritengo sbagliata e pericolosa) che siccome pochi leggono è meglio fare dei video per raggiungere tante persone.
Qui di seguito inserisco un esempio di video, secondo me, di altissima qualità tratto dal canale youtube di https://www.3blue1brown.com/
Tolti questi esempi positivi che per fortuna ci sono, il problema è il proliferare di brevi video di bassa qualità realizzati in modo abbastanza improvvisato.
Se li analizziamo con un minimo di attenzione, vediamo che questi video hanno in primo piano quasi sempre il faccione del divulgatore o della divulgatrice che ovviamente, con l’obiettivo di avere successo, deve banalizzare (cosa ben diversa dal semplificare il contenuto che si vuole raccontare cercando di mantenere il più possibile il rigore. Questa cosa in un video di pochi secondo è ben difficile da fare).
Nei video il novello divulgatore si presenta sempre in modo da essere riconoscibile, per farlo utilizza il trucco di avere un qualcosa che lo caratterizza (un ciuffo fuori posto, una maglietta strana, un paio di occhiali sgargianti, un trucco particolare, uno sfondo con qualcosa che va di moda tipo supereroi della Marvel o una spada laser di guerre stellari) come appartenente allo stereotipo che la gente ha dei nerd, ma nella versione “fico” di bella presenza.
In questo modo raggiunge tanti utenti ed essendo riconoscibile è condiviso e ricercato.
Le persone per quei trenta secondi di attenzione che offrono ad un video di quel tipo si fermano e guardano il video perché l’influencer è diventato riconoscibile.
Il linguaggio ovviamente deve essere semplice e perché no, lo condiamo con qualche parolaccia così guadagnano qualche secondo in più di attenzione perché da uno scienziato uno non si aspetta le parolacce.
Lo step successivo in genere è l’articolo di giornale che spara la notizia “Influencer parla di scienza ai giovani e ha ennemila follower” e via ad elogiare questa divulgatrice/divulgatore che finalmente “parla ai giovani” che sdogana la scienza noiosa, che parla in modo “accattivante di temi ostici” (poi se guardi il video relativo l’argomento forse è ostico probabilmente solo per il giornalista a digiuno di scienza).
Seguono interviste su riviste e giornali online e cartacei in cui l’ormai novella/novello influencer afferma cose tipo:
- La scuola sbaglia, gli insegnanti sono noiosi e allontanano dalla scienza
- Gli scienziati non sanno comunicare, sono delle palle, troppo rigorosi, ai giovani serve altro.
Lo step ancora successivo avviene quando la divulgatrice (o divulgatore) viene contattato da una casa editrice per proporre la pubblicazione di un suo libro (pubblicato mettendo in copertina quasi sempre in primo piano il suo faccione e/o un titolo strano che attira). Ovviamente quel libro è scritto in modo quasi miracoloso in 2-3 mesi dall’esplosione del fenomeno social (non sia mai che passi di moda nel frattempo!).
A seguire, ovviamente, iniziano una serie di conferenze, incontri in giro per l’Italia. Perfino le scuole (di cui lo stesso divulgatore ha parlato male) lo invitano e gli studenti “fanno la ola” alle conferenze non perché si parla di matematica o fisica ma perché a scuola viene uno “famoso”.
Più o meno il meccanismo che ho iniziato ad osservare ultimamente è questo. Ovviamente nella descrizione ho un po’ estremizzato le cose, ma credo di aver fatto una sintesi verosimile di alcune dinamiche.
A questo punto io mi chiedo: Ma siamo sicuri che questa tendenza sia quella giusta?
L’obiettivo di un divulgatore scientifico è parlare di scienza o promuovere se stesso?
A guardar bene alcuni di quei video al centro non c’è la matematica, la fisica, la chimica o la biologia… ma il tizio (o la tizia) che vuole “vendere” se stesso.
Parlare di scienza è diventato uno strumento per farsi conoscere al posto di essere l’obiettivo principale.
La persona che divulga il contenuto non dovrebbe, invece, essere in secondo piano rispetto al contenuto che vuole far conoscere?
Anche il modo con cui vengono trattati gli argomenti è diverso. I temi vengono estremizzati e stereotipati in una frenetica ricerca di un sensazionalismo che attiri l’attenzione.
Non si passano dei contenuti, ma soprattutto emozioni e sensazioni.
In altri termini l’obiettivo non è parlare di qualcosa che magari non è noto, ma generare l’effetto sorpresa con il risultato che alla fine rimane poco o nulla a chi lo guarda.
Insomma seguono lo standard dei social in cui se parli di Roma devi parlare dei “posti che nessuno conosce”, se parli del web dei “trucchi che ti fanno guadagnare soldi e tempo” e titoli simili.
Si adeguano al mezzo social al posto di adattare il mezzo al racconto della scienza.
La vera critica che forse mi sento di fare però non è tanto alla divulgatrice o al divulgatore che usa quel mezzo in quel modo.
Posso capire che veda in tik tok uno strumento da usare per arrivare a farsi conoscere (o, per metterla in modo positivo, a far conoscere a più persone possibili la scienza). Vede una opportunità e la coglie.
Tra le altre cose, ha il coraggio di mettersi in gioco e la costanza di montare quei video, tutte competenze non banali che per esempio io non avrei.
La vera critica che vorrei fare è a giornali e case editrici che danno ulteriore visibilità e “usano” il successo partendo dall’idea che, se una persona ha tanti follower, se è visto da centinaia di migliaia di persone, è comunque qualcosa di valido, è comunque una notizia di cui parlare.
Per le case editrici se ha tanti follower, potenzialmente vendi (capisco che questo fattore sia importante), ma mi sembra un atteggiamento che insegue l’onda al posto di compiere il proprio lavoro di editore e ricercare validi autori che possano dare un contributo culturale serio e diverso nel panorama della divulgazione (e perché no, anche vendere).
Mi si potrebbe obiettare che, in fondo, in questo modo si ottiene il risultato di portare una persona dal vedere distrattamente video in rete, al leggere un libro. Temo però che un libro scritto in pochi mesi sulla scia del successo di video di 180 secondi, rischi di non essere sempre il massimo dal punto di vista della divulgazione e venga acquistato più per simpatia per l’influencer che per interesse per la disciplina.
L’aspetto soprattutto che critico è che questo meccanismo mediatico che parte dal video su tik tok e arriva ad un prodotto editoriale, a conferenze e laboratori di divulgazione, nasconda una profonda sfiducia nelle persone e in particolare nelle nuove generazioni.
E’ un po’ come se ci fosse lo stereotipo che le nuove generazioni sono diverse, non puoi proporgli un lungo testo scritto e neanche un impegnativo video di una ora. Il risultato che ottieni però rischia di essere che, non proponendogli più contenuti di alto livello, rimangano solo video di 60 secondi.
Io insegno a scuola e posso dire che se uno studente è interessato è assolutamente in grado di avvicinarsi a contenuti di alto livello. Non c’è nessuna differenza rispetto ad uno ragazzo degli anni 70-80-90 in capacità e passione.
In altri termini, se parti dall’idea che quei contenuti non vanno più bene per le nuove generazioni, finirai per proporre contenuti sempre più poveri generando un meccanismo verso il basso che si autoalimenta.
L’obiettivo di divulgatori, giornalisti e case editrici non potrebbe essere proprio quello di spezzare questo meccanismo?
O lasciamo ai soli insegnanti questo compito?
Perché alla fine con tutti gli errori che possiamo attribuire agli insegnanti, sono quelli che stanno nelle classi a dire che no, studiare una disciplina scientifica non è solo parlare per pochi minuti di stranezze, curiosità ma comporta la necessità di attenzione, concentrazione, sforzo, esercizio.
Con questo non voglio dire che non sia utile fare video divulgativi e certo non si pretende che nel farli si debba per forza avere le risorse finanziare di un documentario della BBC.
Personalmente ho alcuni criteri per valutare dei video:
1. La necessità di utilizzare il mezzo del video: fare un video è essenziale per parlare di quell’argomento? Le cose dette necessitavano di un video o potevano essere semplicemente “dette” per iscritto? Se fare un video permette di aggiungere qualcosa che in un testo scritto non potrebbe essere reso allora è una ottima idea farne un video. Altrimenti è meglio un testo scritto. Sarà anche più faticoso da leggere, avrà meno lettori, ma lascia qualcosa a chi legge anche solo perché costretto a concentrarsi molto di più rispetto ad contenuto offerto sui video.
2. Il rimandare ad un approfondimento scritto: un video divulgativo condiviso in rete dovrebbe rimandare sempre ad un testo scritto in cui il tutto è spiegato (magari con ulteriore dettaglio) e ad uno o più riferimenti bibliografici per permettere al lettore incuriosito di approfondire e verificare quanto detto nel video. Il video in questo modo diventa uno strumento utile per portare un persona verso l’approfondimento e non solo per stupirlo, incuriosirlo per 30 secondi e poi passare al video successivo (magari su come si cucina la vera carbonara romana).
3. La centralità del contenuto rispetto all’autore del contenuto: se al termine del video quello che rimane è “quanto è fico questo tizio” e non “quanto è interessante l’argomento” il video non è un video di divulgazione scientifica ma usa la divulgazione scientifica (così come posso usare il parlare di cucina e di arte) per farsi conoscere. Se al centro c’è il divulgatore che promuove se stesso, è meglio lasciar perdere.
4. Il montaggio stroboscopico: se il video è montato in modo da inserire al suo interno in continuazione incisi, brevi digressioni, immagini, meme, che si alternano al faccione del divulgatore di turno, è evidente che non si punta sulla qualità del contenuto ma sull’effetto visivo per mantenere l’attenzione.
5. La scelta dei titoli ad effetto: se i video hanno titoli ad effetto tipo “Panda assassini”, “Le 10 cose che Einstein non aveva capito e voi capirete” e “la formula matematica per fare sesso”, è chiaro che si tende ad estremizzare i contenuti per attirare gli utenti come se questo fosse necessario (di nuovo la sfiducia nel pubblico).
Non so se questi criteri siano esaustivi, ma certamente potrebbero aiutare a scremare un bel po’ di contenuti.
Se, infatti, un video è fatto seguendo alcuni di questi criteri nella loro accezione più negativa, secondo me, è meglio lasciarlo perdere.
A chi obietta che quello è il linguaggio emergente ed è adatto alle nuove generazioni, obietterò sempre che è solo perché non hanno avuto la fortuna di incontrare altro.
Ne sono convinto. Forse sbaglierò.
Mi ricordo di uno studente appassionato di cinema che mi disse:
“Ma professore, ma da quando ho visto i film di Andrej Tarkovskij non riesco più a vedere i film della Marvel”.
L’obiettivo dei divulgatori dovrebbe essere quello di far conoscere l’equivalente scientifico dei film di Andrej Tarkovskij, perché i film della Marvel non hanno problemi ad essere conosciuti.
Per approfondire:
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