E’ un grande onore per noi di “Math is in the Air”  pubblicare questa intervista a Roberto Natalini, matematico, divulgatore nonché  direttore dell’ Istituto per le Applicazioni del Calcolo del CNR. 

L’intervista verte sul suo libro dal titolo “Teorema di Bayes” recentemente pubblicato sulla collana “Rivoluzioni matematiche” edita dalla rivista “le Scienze” ma è stata anche una occasione  per parlare con lui della sua carriera come matematico e delle sue innumerevoli attività divulgative (dal sito MaddMaths al progetto Comics&Science). 

Insomma per chi cerca, come noi, di fare divulgazione matematica, è stato un po’ come avere l’occasione di intervistare il “nume tutelare” della divulgazione matematica italiana. 

Ringraziamo Roberto Natalini per aver trovato il tempo di rispondere alle nostre domande.

Il libro “Teorema di Bayes” lo trovate in allegato con il numero del mese di gennaio 2024 della rivista “le Scienze” oppure qui (in versione digitale)


Come è nata la partecipazione al progetto “Rivoluzioni Matematiche” della rivista “le Scienze”?

RN: A un certo punto mi ha chiamato il direttore di Le Scienze, Marco Cattaneo, e mi ha chiesto di dargli una mano per realizzare una collana di volumetti sui maggiori teoremi matematici, all’inizio erano 20 titoli, da vendere come allegato alla rivista. Dal punto di vista editoriale la collana sarebbe stata seguita da Giorgio Rivieccio, che aveva già commissionato quattro titoli con relativi autori, ma stava a me, con l’aiuto della redazione di MaddMaths! di proporre i titoli e gli autori restanti. Ci siamo messi al lavoro e direi, dopo sedici volumi usciti, che la collana sta andando bene, tanto che è stata prolungata già da ora a 25 titoli. Insomma, un’iniziativa che ci ha dato tanta libertà e la possibilità di presentare la matematica in modo meno scontato.

Come mai hai scelto proprio di parlare del teorema di Bayes?

RN: Forse perché non sono un probabilista di formazione, questo teorema mi ha sempre incuriosito per il fatto di essere elementare e potente al tempo stesso. È un teorema non intuitivo, come non sono intuitivi la probabilità condizionata e il concetto di indipendenza, ma si può spiegare anche senza troppo formalismo matematico, bastano poche definizioni spiegate bene. Ed è il grande assente nella maggior parte dei corsi di matematica impartiti nella scuola superiore. E si vede! Infatti la maggior parte delle persone adulte poi commette errori marchiani nel leggere i dati, come si è visto durante il periodo della pandemia.

Ma già da prima mi era sembrato un argomento fondamentale da sviluppare in attività di tipo didattico. Per qualche anno ho fatto delle sperimentazioni con delle classi di PCTO del Liceo Russell di Roma, ed è stato anche l’oggetto di attività di formazione per il Polo di Roma dei Lincei per la scuola e in un laboratorio immersivo per la fiera Didacta. Insomma, ce l’avevo pronto, ben testato in classe con esempi, controesempi e laboratori, e aspettava solo di essere scritto.

Come è impostato il libro?

RN: Il libro si adegua al formato editoriale imposto dall’editore. C’è prima una breve parte storica, scritta dalla redazione della collana, e una seconda parte, quella che ho scritto io, più matematica, che si compone di un antefatto, ossia la situazione precedente al teorema che si vuole raccontare. Poi si enuncia il Teorema e si propone una sua dimostrazione. Poi c’è una sezione che, forse un po’ incongruamente, presenta i prerequisiti matematici (che forse andrebbe messa prima, ma l’editore ha deciso diversamente), seguita da un capitolo di applicazioni varie del teorema e uno sugli sviluppi successivi. Certo, per molti dei titoli della collana è stato difficile proporre delle dimostrazioni complete e accessibili, ma questo è stato possibile per il teorema di Bayes proprio perché è basato su concetti relativamente elementari.

Per quale pubblico è pensato?

RN: Tutta la collana è pensata per i lettori di Le Scienze, ossia un pubblico motivato, tipicamente laureato, con un buon tasso di attenzione, ma non per forza esperto di matematica. Ovviamente includo insegnanti delle superiori e studenti di materie scientifiche. Basandomi sui PCTO che ho proposto ad alcuni classi di terza liceo scientifico, penso sia anche possibile usare il libro per alcune lezioni/laboratori con studenti delle superiori.

In che senso nel libro scrivi, citando Harold Jeffreys, che il teorema di Bayes è per la probabilità l’equivalente del teorema di Pitagora per la geometria?

RN: Questa frase compare all’inizio del libro di Harold Jeffreys “Statistical inference”, pubblicato nel

Thomas Bayes (fonte wikipedia)

1931 (ma io avevo la terza versione del 1973). Direi che per Jeffreys, quello di Bayes è il primo vero teorema di probabilità che non discende ovviamente dagli enunciati e, anche se la sua dimostrazione è di fatto elementare, permette di risolvere tantissimi problemi interessanti per le applicazioni, il più famoso dei quali è: “c’è un test che dà il 30% di falsi negativi e il 20% di falsi positivi di una malattia che affligge il 2% della popolazione. Una persona fa il test ed è positiva. Qual è la probabilità che abbia veramente la malattia?”. Con il teorema di Bayes, questa domanda è un facile esercizio, e nel libro provo a far vedere come trattarla direttamente e poi usando il teorema, ma in generale la maggior parte delle persone non saprebbe nemmeno dove iniziare per rispondere. Comunque, se vogliamo spingere oltre il parallelo, così come il teorema di Pitagora permette di risolvere alcuni problemi di geometria dove solo alcune informazioni parziali sono evidenti, così il teorema di Bayes permette di compiere delle operazioni di “probabilità inversa”, ossia quando dagli esiti di una prova cerchi di dedurre le probabilità attuali di un evento, che sembrerebbero a prima vista fuori portata.

Perché scrivi che  l’opera  “An Essay Towards Solving a Problem in the Doctrine of Chances” di Bayes (pubblicata postuma grazie all’amico Richard Price) può essere considerata un primo esempio di quella che, con la terminologia moderna,  viene chiamata “inferenza statistica”?

RN: La prima cosa che ti obbliga a fare la scrittura di un libro come questo è di leggere i testi originali, cosa che di solito un matematico non fa mai. E questo oggi è possibile farlo anche stando a casa, qui  si trova, per esempio, una scansione del testo originale del 1763 dell’articolo di Bayes. Ed è interessante come sia tutto sommato un testo già moderno. Attraverso un curioso esperimento virtuale con delle palline lanciate su un biliardo, Bayes si fa la seguente domanda: supponiamo di non sapere nulla sulla probabilità di un certo evento, che per esempio, per fissare le idee, potrebbe essere il lancio di una moneta a due facce, facce che però potrebbero essere molto diverse. All’inizio possiamo supporre che le due facce siano equiprobabili. Se esce testa al primo lancio, come cambia la nostra stima di questa probabilità? E se lanciamo 10 volte la moneta ed esce sempre testa, come cambia la stima della probabilità che esca testa al prossimo lancio? Insomma, a differenza dei problemi di probabilità “diretta”, in cui si suppone di conoscere a priori la probabilità di un evento, Bayes si interessa di come poter dedurre, o meglio “inferire”, nuove informazioni, dalle occorrenze sperimentali. E nel farlo, non solo definisce la probabilità condizionata, ossia come cambia la stima della probabilità di un evento, sapendo che un altro evento a esso collegato sia o meno accaduto, ma va al di là, usando l’analisi matematica e la teoria dell’integrazione, per calcolare in modo semplice l’influenza degli esperimenti sulle nostre stime. Nel fare questo propone, senza dimostrazione, alcune proposizioni, tra cui anche il famoso teorema che oggi porta il suo nome.

Va detto a questo punto che stiamo parlando del Teorema di Bayes senza averlo enunciato.

Ovviamente chi si compra il libro trova tutto spiegato bene, ma se vogliamo farci capire da chi ci legge, senza obbligarlo a ricorrere a Wikipedia, forse è meglio dire in cosa consiste questo teorema.

In pratica dice questo: se ho due eventi A e B di cui conosco la probabilità a priori, e conosco P(A|B), ossia la probabilità che succeda A supponendo che sia avvenuto B, allora posso calcolare P(B|A), che è la probabilità di B supponendo che sia avvenuto A, e questa è uguale a P(A|B)P(B)/P(A). Sembra un gioco di parole, ma come capì già Bayes, apre la porta a tantissime applicazioni.

Quale è il ruolo di Laplace e Price nella storia del teorema di Bayes?

RN: Il ruolo di Price è stato quello dell’enzima, anche se forse è stato qualcosa di più. Intanto va ricordato che Bayes era un ministro presbiteriano che si interessava alla matematica esclusivamente per diletto. Non era un professionista e tanto meno un docente universitario. Price era un amico che condivideva le sue passioni e frequentava anche altri scienziati dell’epoca. Quando Bayes morì, nel 1761, la famiglia di Bayes chiese a Price di disporre delle carte che aveva lasciato. Tra queste carte fu ritrovato un manoscritto completo ed inedito in cui appunto si trattava la probabilità inversa. Price decise allora di pubblicarlo dopo aver aggiunto una corposa prefazione, di fatto eliminando quella scritta da Bayes, rivedendo il testo, e aggiungendo un’appendice di calcoli espliciti di alcune probabilità condizionate, come per esempio la probabilità di fare testa con una moneta a priori non equa, sapendo che negli ultimi tot lanci è uscita sempre testa. Un risultato di Price è il seguente: sia p la probabilità di ottenere testa con una moneta. Allora, supponendo di non sapere nulla su quanto valga questa probabilità, lancio per 10 volte la moneta e ottengo sempre testa. A questo punto posso dire, come applicazione fatta da Price del teorema di Bayes, che la probabilità che p sia tra 2/3 e 16/17 è uguale (circa) a 0,5013. Insomma, ci sono forti sospetti che la moneta sia truccata. Si osservi che, se si supponesse che la moneta fosse equa, la probabilità di avere testa per dieci volte di seguito sarebbe uguale a 2-10 =0,000976562.

Questo manoscritto, nella versione rivista da Price, apparve nelle Philosophical Transactions della Royal Society il 23 dicembre del 1763. La cosa rimase lì e nessuno la notò. Qualche anno dopo, nel 1774, Laplace, non conoscendo affatto il testo di Bayes, si concentra sul problema di quella che chiama “la probabilità delle cause”. Ossia, si ha un evento E di cui non si conosce la causa, ma ci sono n possibili cause Ai (considerate, tacitamente, da Laplace equiprobabili ed esclusive). Allora, se osserviamo il verificarsi di E, la probabilità che una certa causa Ak si sia verificata è uguale alla probabilità che si verifichi E, data Ak, divisa per la somma di tutte le probabilità del verificarsi dell’evento E data ciascuna causa. Questo è proprio il teorema di Bayes enunciato in un caso particolare. Per Laplace questo principio doveva servire, dato un evento, a determinare la causa più probabile tra tutte quelle possibili. Le implicazioni di queste idee saranno approfondite nel saggio di Laplace del 1814, Essai philosophique sur les probabilités, dove cita per la prima volta Bayes, forse grazie alla segnalazione di Nicolas de Condorcet che aveva a sua volta conosciuto Price. Diciamo che per la completezza della presentazione e anche la coscienza delle possibili implicazioni, molti studiosi ritengono che Laplace sia il vero autore del teorema di Bayes, ma insomma, sono dibattiti che, alla fine, non portano a nulla.

Quando si parla di libri di divulgazione matematica, in genere, si evita di inserire le formule. Eppure nel tuo libro sei riuscito non solo a mettere mantenere diverse formule ma anche a fare una trattazione rigorosa e ampia del teorema di Bayes. Come sei riuscito a “dosare” i due aspetti della divulgazione chiara per un grande pubblico e il rigore scientifico?

De Finetti (fonte wikipedia)

RN: Intanto bisogna vedere se l’operazione è riuscita. Dipende molto dal lettore. E poi in un certo senso, è anche il motivo per cui avevo scelto questo teorema. C’è una parte dedicata alle definizioni, molto precise e tecniche, ma di fatto abbastanza basilari. E poi molto è dedicato alle idee che ci sono dietro alla probabilità, a cosa vuol dire assegnare una probabilità a un evento e come modifichiamo la nostra stima in modo coerente al verificarsi di nuovi fatti. Insomma, più che perdersi nel simbolismo matematico, il lettore è invitato a fare i conti, che alla fine risultano essere abbastanza elementari e di buon senso. Ma finalmente, cercando di spiegare questo teorema, ho capito la celebre frase di De Finetti: “La probabilità non esiste”.

Nel libro sono presenti molti esempi di applicazione del teorema di Bayes davvero particolari che rendono il libro ancora  più interessante nonché utilizzabile  anche da insegnanti  di scuola superiore nella loro pratica didattica. Potresti anticipare qualcuno di questi problemi ai nostri lettori?

(Fonte https://www.pexels.com/)

Allora, il teorema di Bayes si applica in una miriade di situazioni, dalle previsioni del tempo, ai sistemi diagnostici, nei motori di ricerca, nelle funzioni di completamento dei nostri software di scrittura. È un ingrediente fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Un problema molto famoso, che riguarda l’affidabilità di una testimonianza a un processo, è il problema del taxi. Durante la notte, un taxi ha causato un incidente. In città operano due compagnie di taxi, una con i taxi gialli, l’altra con i taxi bianchi. Un testimone ha dichiarato che il taxi coinvolto nell’incidente era giallo. Sappiamo che i taxi bianchi sono il 60% dei taxi in città. Inoltre, la probabilità che un testimone, di notte, identifichi correttamente il colore del taxi è stimata uguale a 0,8. Ecco il problema: sulla base di queste informazioni, qual è la probabilità che il taxi fosse in realtà bianco? Provate a risolvere il problema e magari postate la risposta nei commenti!

Nel suo primo saggio Laplace aveva proposto un problema simile, ma con un testimone che riferisce l’esito di un’estrazione a una lotteria. Ecco, credo che ragionare su questi problemi sia interessante e porti a un lavoro utile, anche in chiave didattica, per chi lo compie. Un’altra applicazione notevole è quella dei filtri anti-spam. In questo caso il teorema di Bayes permette di conoscere la probabilità che un messaggio di posta elettronica sia indesiderato, una volta analizzata la probabilità che certe determinate parole compaiano nei messaggi che vengono ritenuti spam dgli utenti. Questo è un esempio importante di addestramento di un sistema, in cui le nostre conoscenze vengono incorporate a mano a mano nell’algoritmo di decisione.

Il libro affronta anche gli sviluppi dell’utilizzo del teorema di Bayes nel corso dei secoli. In particolare, secondo me,  è ottimamente raccontato l’utilizzo che ne fa Jerome Cornfield. Anche in questo caso non possiamo non chiederti di anticipare qualcosa a chi ci legge.

RN: Sì, adesso non facciamo troppo spoiler, ma insomma Cornfield studiava le cause dell’incremento dei casi di tumore al polmone avvenuta dopo la seconda guerra mondiale. Varie cause erano state esaminate, come: una maggiore capacità di diagnosticarlo, l’invecchiamento della popolazione, gli scarichi industriali e delle automobili, lo smog causato dal riscaldamento a carbone. Le sigarette non erano invece molto considerate, a causa di alcuni studi su animali, per cui il tabacco non si era dimostrato cancerogeno (sic!). Nonostante questo, alcuni studi dimostravano, per esempio, che su 649 uomini con il tumore al polmone, solo 2 non erano fumatori, ma mancava una vera e propria dimostrazione “causale” del ruolo del fumo per questa malattia. Nel 1951, James Cornfield, che lavorava per i National Institutes of Health degli Stati Uniti, pensò di usare, nello spirito delle ricerche di Laplace, la formula di Bayes per dimostrare la correlazione causale del fumo con il tumore al polmone. Il problema era che per fare lo studio “diretto” sarebbe stato necessario selezionare un gruppo molto largo di soggetti rappresentativi della popolazione, aventi o no le caratteristiche cercate, per esempio essere o no fumatori, e registrare nel tempo la percentuale di coloro che si ammalavano di tumore al polmone. Purtroppo questo tipo di studi dura molto tempo e richiede ingenti fondi a disposizione. Invece il metodo seguito allora era quello di prendere due gruppi di persone, uno di persone con un tumore al polmone e l’altro senza, e rilevare in questi gruppi la frequenza dei fumatori. Ma se si usa il teorema di Bayes, da questi ultimi dati, che sono più a portata di mano, è facile risalire alla probabilità che il fumo influenzi o meno l’occorrenza del tumore.

Nonostante questo risultato, e anche successive ricerche fossero abbastanza conclusive sullo stretto rapporto tra fumo e tumori, il famoso statistico Fisher, lui stesso forte fumatore e consulente delle aziende produttrici di sigarette, non accettò le conclusioni proposte. La sua tesi era che questa correlazione potesse essere spiegata altrimenti e proponeva due diverse possibilità: la prima era che fosse il tumore a spingere la gente a fumare (incredibile, vero?); la seconda che ci fosse un fattore genetico latente di propensione che legasse le due cose. Nei lavori successivi, dati alla mano, Cornfield smontò queste osservazioni di Fisher, in modo abbastanza conclusivo.

Nel libro accenni anche alle problematiche che hanno portato l’approccio bayesiano ad affermarsi con maggiore difficoltà. Quali ne sono state le cause principali di ciò secondo te? 

Pierre Simon Laplace (Fonte wikipedia)

RN: Direi che, a parte alcuni esempi elementari, come quelli che ho mostrato, in molti casi non è ovvio utilizzare la statistica bayesiana per calcolare delle probabilità effettive. Un problema importante era quella che viene chiamata probabilità a priori. Sia per Bayes che per Laplace, si considerava che a priori non vi fosse nessuna conoscenza, per cui nell’esempio di una moneta di cui non si sappia nulla, l’ipotesi di partenza è che la probabilità di fare testa sia un qualsiasi numero p compreso tra 0 e 1, oppure nel caso di Laplace, che le probabilità delle cause siano tutte uguali. Ma uno sguardo più attento mostra che non è necessario partire da ipotesi così radicali e che anzi è possibile considerare distribuzioni di probabilità più realistiche, solo che questo richiede un maggior lavoro computazionale, che forse all’epoca non era possibile fare. Comunque statistici influenti come Fisher nel XX secolo, si opposero con ogni mezzo all’idea di probabilità inversa, e confesso di non aver completamente capito le ragioni di questa ostilità.

Una seconda ragione, che forse è legata alla prima, sembra essere stata causata proprio di Laplace che fu uno dei primi dimostrare sotto certe ipotesi il teorema del limite centrale. Se uno ipotizza, come in realtà spesso accade, che il fenomeno abbia a priori una distribuzione normale, allora è molto semplice calcolare media e varianza in base ai dati e quindi immaginare quale sia la probabilità che un certo fenomeno si verifichi, e in presenza di molti dati si ottengono stime molto precise senza fare tutti i calcoli richiesti dal teorema di Bayes, che nel caso in cui la probabilità a priori sia data come distribuzione di probabilità possono essere anche molto complessi, a seconda della distribuzione scelta.

Veniamo ora a domande di carattere più generale.

Per prima cosa vorremmo chiedere di raccontare ai nostri lettori, quali sono i tuoi principali interessi scientifici? Di che cosa ti occupi/ ti sei occupato in passato?

RN: ho cominciato la mia carriera durante il dottorato che ho fatto in Francia, a Bordeaux, a metà degli anni ‘80, studiando gli aspetti di analisi qualitativa delle equazioni a derivate parziali non lineari di tipo iperbolico. Ovviamente detto così non vuol dire nulla, se non per un gruppo ristretto di specialisti.

Provo a ridirlo in modo più articolato. La maggior parte dei modelli fisici si può scrivere utilizzando delle equazioni che legano insieme la velocità o l’accelerazione di quantità che dipendono dalla variazione spaziale della stessa quantità o di quantità collegate. La velocità con cui cambia un campo elettrico nel tempo dipende da come varia nello spazio il campo magnetico. Oppure la velocità con cui cambia la densità di un gas dipende da come cambia nello spazio la sua quantità di moto (ossia il prodotto della densità per la velocità media del gas). O ancora, la velocità con cui cambia nel tempo la temperatura di un corpo in un certo punto dello spazio dipende da come varia questa temperatura nei punti circostanti. Spesso queste relazioni sono non lineari, ossia il cambiamento di una certa quantità non è proporzionale al cambiamento delle altre. Quello che ci piacerebbe poter fare per predire il futuro di un certo sistema fisico sarebbe di assegnare lo stato iniziale di un sistema, fissare le condizioni al contorno del dominio e calcolare in modo unico la soluzione del problema. Prendo una corda elastica fissata ai bordi, le assegno una posizione iniziale ed eventualmente anche una velocità iniziale, e vorrei conoscere la posizione della corda per tutti i tempi successivi. Questo non è sempre possibile, perché a volte la soluzione non esiste, magari perché ho messo troppe condizioni, oppure non è unica, perché ne ho messe troppo poche. O ancora non è stabile, ossia appena cambio di poco i dati, la soluzione cambia tantissimo, rendendo quindi praticamente inutile il modello matematico.

Le equazioni iperboliche che ho iniziato a studiare durante la tesi di dottorato sotto la guida dei miei maestri Bernard Hanouzet e Jean-Luc Joly, equazioni che hanno come prototipo proprio l’equazione della corda vibrante, sono precisamente quelle equazioni per cui, almeno per intervalli brevi di tempo, la soluzione esiste, è unica e si comporta bene. Le equazioni di Maxwell delle onde elettromagnetiche, o le equazioni di Eulero della dinamica dei gas sono esempi di equazioni iperboliche. Invece l’equazione del calore di Fourier, che descrive come varia nel tempo la temperatura di un corpo, non è iperbolica e presenta fenomeni non fisici. Se uno desse retta a questa equazione, che di fatto è solo un’approssimazione semplificata della realtà fisica, accendendo un fiammifero in un punto qualsiasi dello spazio, vedrebbe che istantaneamente in tutto l’universo si avrebbe un aumento magari piccolo della temperatura. E questo violerebbe il principio di relatività di Einstein per cui nulla può viaggiare più veloce della luce.

Va bene, dopo questa lunga premessa, cerco di dire di cosa mi sono occupato. La prima parte della mia carriera, diciamo fino a poco dopo il 2000, è stato caratterizzato da una ricerca più che altro teorica. Ho studiato equazioni, ovviamente iperboliche, in dinamica dei gas e per il movimento di cariche nei semiconduttori. Ho cercato di capire se alcuni metodi numerici convergevano a queste soluzioni, e tra le altre cose ho creato dei metodi numerici, i metodi di rilassamento di tipo BGK vettoriale (tranquilli, non spiego cosa voglia dire…), che permettono di approssimare in linea di principio qualsiasi problema iperbolico non lineare, risultando semplici da implementare e affidabili. Dopo il 2000, grazie al fatto che lavoro al Consiglio Nazionale delle Ricerche, ho iniziato a interagire in modo sempre più diretto con le applicazioni: problemi di danneggiamento dei monumenti dovuti all’inquinamento, modelli del movimento di gruppi di cellule (staminali, cancerogene, immunitarie), modelli del movimento di molecole all’interno delle cellule (con applicazioni ai futuri vaccini a DNA), analisi dei meccanismi dell’evoluzione biologica. In parallelo ho continuato a interessarmi ai problemi iperbolici da un punto di vista qualitativo, ma anche a problemi leggermente diversi, come proporre e studiare dei modelli iperbolici che approssimino bene le equazioni della fluidodinamica viscosa di Navier-Stokes, che si usano per simulare il movimento di aerei, automobili etc…

Qual è il risultato ottenuto fino ad ora di cui vai più fiero?

RN: Non so veramente. Forse lo studio che abbiamo pubblicato nel 2006 con Stefano Bianchini e Bernard Hanouzet per capire come si comportano le soluzioni di una classe di sistemi iperbolici che hanno dei termini di frizione che permettono di dissipare l’energia del sistema. Con questo studio abbiamo capito completamente il comportamento delle soluzioni per tempi molto grandi, studiandone con precisione il tasso di decadimento. È uno dei miei lavori più citati. Ma sono molto fiero anche di aver capito che le croste di solfato sui monumenti di marmo esposti all’inquinamento crescono come la radice del tempo di esposizione. Oppure di aver dimostrato, con Roberta Bianchini (che non è parente di Stefano), usando il calcolo para-differenziale, che le equazioni delle miscele sono ben poste localmente, un problema aperto da anni.

Quale fra le tante tue pubblicazioni ha avuto uno sviluppo che per te è stato inatteso?

RN: Direi quello che è stato il lavoro di svolta della mia carriera. Nel 1994 ero in un momento di transizione non facile della mia vita, e anche un po’ fermo dal lato ricerca. Avevo chiuso una serie di lavori precedenti, ma non sapevo bene che progetto intraprendere. Mi venne a trovare a Roma un amico matematico di origine cinese, Zhouping Xin, che all’epoca era professore al Courant Institute a New York, e mi parlò di un metodo numerico che avevano trovato con il suo collega Shi Jin per le equazioni iperboliche non lineari. In pratica, raddoppiando il numero di variabili, si poteva approssimare il problema con sistemi, sempre iperbolici, che però avevano una minore non linearità. Questo metodo, che si chiamava di rilassamento iperbolico, funzionava molto bene, ma anche in casi semplici Xin e Jin non erano in grado di capire perché funzionava, e soprattutto se questa approssimazione era rigorosa. In quel periodo, per una strana coincidenza, avevo appena finito un lavoro sui problemi semilineari quasi-monotoni e, dopo la partenza di Zhouping, cercai di capire se questa quasi-monotonia poteva aiutare a dimostrare la convergenza del metodo. E la risposta fu che questa teoria, che avevo sviluppato per altri scopi con Bernard Hanouzet, si applicava direttamente a questi rilassamenti iperbolici. Nel giro di pochi mesi scrissi due lavori, uno teorico, che poi sarebbe stato pubblicato sui Communications in Pure and Applied Mathematics (una delle migliori riviste matematiche nel mio settore) e un secondo numerico insieme a Denise Aregba-Driollet dell’Università di Bordeaux, lavori che ebbero molto successo e molte citazioni, e che in qualche modo cambiarono decisamente il corso della mia carriera.

Oltre ad essere un importante matematico, dal 2014 sei il direttore dell’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del CNR. Quanto è difficile svolgere questo ruolo? Quali sono state le difficoltà (se ci sono state) nello svolgere anche questo incarico pur continuando a fare ricerca?

RN: Diciamo che all’inizio, quando sono diventato direttore, non mi sono ben reso conto della difficoltà di questa carica, che ricordo non avviene per elezione, come all’università, ma con un concorso e una nomina da parte del CdA del Cnr. Avevo sempre seguito da vicino il lavoro dei miei direttori precedenti, Alberto Tesei prima e dopo Michiel Bertsch, e conoscevo abbastanza bene sia l’amministrazione del mio istituto che quella del Cnr centrale. Purtroppo negli anni questo lavoro si è complicato, per varie ragioni, tra cui un sempre maggiore controllo burocratico sul nostro lavoro, soprattutto sul piano finanziario. Questo processo, unito a una mancanza di ricambio del personale amministrativo, ha reso sempre più difficile il lavoro di direzione, specie nell’ultimo anno, con l’inizio di questi nuovi progetti PNRR. Sulla carta sono delle bellissime sfide, ma gestirle dal punto di vista amministrativo è piuttosto complicato. Insomma, non sempre è facile riuscire a fare tutto bene. Ed è una bella responsabilità dirigere un istituto che conta oltre 80 unità di personale, che tra l’altro negli ultimi 10 anni ha avuto un’enorme crescita sul piano della ricerca e delle risorse esterne acquisite. Insomma, la matematica al confronto è molto più facile!

Non so se qualcuno te lo ha mai detto ma almeno da noi di “Math is in the Air” sei considerato il principale “artefice” dello sviluppo della divulgazione matematica italiana degli ultimi 20 anni. Insomma una sorta di “grande padre” della divulgazione matematica! Prima con l’idea di Maddmaths e poi con il progetto Comics&Science e in mezzo con la tua incredibile capacità di mettere in rete tante persone (ricercatori e non ) appassionate di divulgazione. Non si contano le iniziative a cui tu hai collaborato o da te organizzate. In questa intervista vorremmo cercare di far emergere alcune di queste tue iniziative.

RN: Qui prima di continuare datemi però la possibilità di oppormi a questa descrizione apologetica. Non è esattamente così (per esempio “mettere in rete tante persone” è più che altro una grande capacità di sfruttare far lavorare gli altri…), ma ok, facciamo finta che non ho sentito nulla e andiamo avanti.

Iniziamo dal sito MaddMaths!. Quando e come è nata l’idea del sito MaddMaths!?

RN: Per i primi 15 anni della mia carriera non mi sono occupato per niente di divulgazione. Pensavo quasi esclusivamente a fare il matematico. Avevo avuto qualche piccola esperienza però. La mia amica d’infanzia Rossella Panarese, che purtroppo ci ha lasciato troppo presto nel 2021, aveva creato a Radio3 una trasmissione che si chiamava Palomar, che è stata un po’ l’antenata diretta di quella che oggi è Radio3 Scienza, e mi aveva chiesto qualche volta di parlare di matematica e anche di scrivere dei brevi testi divulgativi. E la così finì lì. Però poi nel 2003 si parlava molto di una riforma del Cnr proposta dalla allora ministra Moratti che di fatto avrebbe cancellato la matematica come settore autonomo all’interno dell’Ente (cosa poi avvenuta nell’immediato e solo parzialmente recuperata negli ultimi anni), e mi trovai a discutere con Pietro Greco, che era venuto a fare un seminario di comunicazione della scienza nel mio Istituto (l’ho raccontato in dettaglio in occasione della scomparsa di Pietro nel 2020). E parlando con lui mi resi conto che la sostanziale indifferenza dei media a quanto stava avvenendo era anche dovuta a una scarsa percezione del nostro lavoro da parte di vasti settore dell’opinione pubblica. A partire da quell’episodio, ho iniziato a occuparmi, con i miei tempi, non proprio velocissimi, di comunicazione della matematica. E questo ha portato un mio collega, Benedetto Piccoli, ora emigrato negli USA, a entrare nel mio studio un bel giorno del 2008 per propormi di fare qualcosa di più sistematico per la divulgazione e la comunicazione. E l’idea era che chi i soggetti dovessero essere matematici attivi, gente che faceva ricerca in mood professionale, ma si impegnava anche a raccontare la sua ricerca e la sua disciplina, magari aiutata da giornalisti ed esperti di comunicazione, ma comunque con un controllo totale del progetto. Da qui è nato MaddMaths!, il nome viene da una sessione di brainstorming con Chiara Valerio, Stefano Pisani, Cristiana Di Russo e Alice Sepe (e sì, l’assonanza con MadMax non è del tutto casuale…). Iniziammo quindi con… uno spettacolo (Variazioni sul tema della goccia  in cui c’era anche una nuova cosmicomica!) che andò in scena durante il convegno SIMAI 2008, e pochi mesi dopo, con Chiara Valerio e Stefano Pisani, partecipammo a un convegno all’INdAM, organizzato da Michele Emmer e Mario Pulvirenti nel novembre del 2008, sulla divulgazione e diffusione della matematica. Ci presentammo con un testo scritto a 6 mani: “Divertente, troppo divertente: la matematica della porta accanto“ che era un po’ il manifesto di questo nostro progetto, e lo trovate qui. Online ci siamo andati solo il 26 marzo del 2009. Una vita fa, vero?

E il progetto Comics&Science, invece, come è nato?

RN: Vabbè, ma così diventa incredibilmente lungo. Proviamo. Forse l’inizio di Comics&Science è stato il 1 novembre 2012 alle ore 12, nella sala incontri del Palazzo Ducale di Lucca. L’incontro si intitolava “Di cosa parliamo quando parliamo di comics e scienza.”. No, insomma questa è l’apparizione ufficiale. Già un anno prima, sempre più o meno tra i portici di Palazzo Ducale, avevamo cominciato a ragionare con Andrea Plazzi, un matematico di formazione, editor di fumetti e traduttore per professione, su un’osservazione ancora più basilare: dove se non a Lucca Comics & Games avremmo trovato persone capaci di attenzione maniacale, capacità d’osservazione, gusto per la classificazione e la scoperta, passione, fantasia e improvvisazione? Ossia, per farla breve, dei nerd che potenzialmente potevano interessarsi alla scienza? Nel 2012 abbiamo lanciato la sezione Comics&Science di Lucca Comics & Games, con una piccola e mirata programmazione dagli esiti incoraggianti e abbiamo capito subito che qualsiasi cosa con “comics” nel nome doveva dimostrare di esserne all’altezza. Così, nel 2013 a Lucca avevamo con noi Leo Ortolani, uno dei maggiori autori italiani di fumetti, con una laurea in Geologia mai del tutto dimenticata, che si è divertito a proporre una serie di approfondimenti nello stile di note trasmissioni televisive, più o meno (più meno che più) scientifiche: era nata “Misterius”, la trasmissione che non sa di che cosa parla, però non lo sapete neanche voi. Tra i personaggi di Ortolani c’era anche il matematico (vero) Cédric Villani, vincitore due anni prima della prestigiosissima medaglia Fields, e a novembre dello stesso anno Ortolani e Villani si incontravano a Lucca.

Fonte: https://www.comicsandscience.it/prodotto/misterius/

La filosofia di Comics&Science è molto semplice: parlare di scienza – ad alto livello – con fumetti realizzati dai migliori autori sulla piazza e accompagnate da approfondimenti precisi. Storie che soprattutto divertano e attraggano il pubblico per quello che sono: fumetti interessanti e artisticamente validi. Non abbiamo mai pensato a un’operazione di pura esposizione didascalica.

E poi abbiamo avuto il sostengno di Cnr Edizioni, la sezione editoria del Cnr, e da lì sono nate le nostre pubblicazioni, che si avvicinano alla trentina, gli eventi, i laboratori, gli spettacoli (l’ultimo su Vito Volterra!) etc… tutto ben riassunto nel nostro sito https://www.comicsandscience.it/. Non dico altro per non farla lunga, se non che spesso, quando si fa divulgazione, ci si concentra molto sul pubblico che si vuole raggiungere, ma ci si dimentica che un pubblico bisogna prima di tutto conquistarlo. E qui il fumetto, e gli autori di fumetti, possono darci una mano. Dal lato matematico questo mi ha permesso non solo di conoscere autori fantastici, ma anche di divertirmi con presentazioni pubbliche che non avrebbero nemmeno avuto senso se non ci fossero stati i fumetti

Sembra incredibile ma, oltre alle precedenti attività, riesci anche a dirigere la rivista “Archimede”. Di che cosa si occupa questa rivista?

RN: In realtà Archimede è il progetto più semplice. Nel 2015 l’allora direttore Claudio Bernardi mi chiese di prendere la direzione della rivista, che voleva essere uno strumento utile per l’aggiornamento e la formazione degli insegnanti, ma senza essere una rivista scientifica di didattica della matematica. Doveva comunque restare una rivista divulgativa e adatta anche agli appassionati di matematica non professionisti. Ho quindi cambiato un po’ le rubriche, inserendo sezioni di cultura matematica, giochi, e anche fumetti (sempre grazie al solito Andrea Plazzi). E negli ultimi anni abbiamo anche provato a far uscire dei numeri tematici, su problemi come la valutazione o il concetto di dimostrazione. A me sembra sia sempre abbastanza interessante, ma comunque una rivista cartacea, con periodicità trimestrale, ha caratteristiche diverse rispetto a un sito web o ai tempi della comunicazione social ed è difficile valutarne l’impatto. A volte mi scoraggio, penso sia solo una goccia nel mare, non sempre capisco bene la politica di marketing dell’editore, ma poi quando mi arriva il numero stampato, che ormai conosco a memoria (ricorreggo sempre le bozze prima della stampa), mi stupisce ogni volta, e lo sfoglio sempre con grande piacere. Insomma, è un rapporto ambivalente, ma spero qualche cosa di buono di averlo fatto anche con questa iniziativa.

Come sei riuscito a coniugare la tua attività di ricerca nel campo della matematica con quella di divulgatore?

RN: non so se ci sono riuscito. Sicuramente aiuta il fatto di stare al Cnr, non ho attività didattica obbligatoria e questo mi permette di avere più energie e tempo di tanti colleghi universitari. Però insomma, la giornata è di 24 ore, a volte non riesco a fare tutto come vorrei. Molte cose di divulgazione le faccio di sera o in vacanza (come in questo momento che raccogli l’intervista, per esempio), ma insomma, ripeto, a volte devo rinunciare a qualcosa o mi capita di fare tante cose peggio di come vorrei. Specie quelle noiose!

Se non sbagliamo, pur essendo tu attivo nella divulgazione con tanti articoli scritti su riviste e in rete, questo è il tuo primo “libro” divulgativo. 

Cosa ti ha convinto a pubblicare (finalmente!!) un libro? 

RN: Sì è vero. Finora avevo curato dei libri di proceedings di matematica e un libro, a più mani, sulla Didattica della matematica, uscito per Mondadori nel 2017. Ma questo è il mio primo libro di divulgazione. Diciamo che in questo caso non potevo scappare. Quando con Marco Cattaneo ci siamo sentiti per questa collana, una delle condizioni è stata che io scrivessi almeno uno di questi testi. E ho fatto come succede sempre in questi casi. Dici “ma certo, che problema c’è, tanto lo devo consegnare fra un anno”. Poi la data di consegna si avvicina, è fra poche settimane, e sì hai raccolto il materiale, ma ancora devi cominciare. E poi, a forza di procrastinare, un bel giorno di agosto ti trovi a scrivere la prima pagina con la paura di non farcela. Ecco, forse la verità è che tutto sta nell’avere qualcosa di preciso da dire e anche nel cominciare in qualche modo. Poi il resto viene un po’ da sé.

Dopo aver letto questo libro non possiamo che sperare che ce ne sarà un altro… hai già qualche progetto che bolle in pentola?

RN: No, in realtà no. A un certo punto mi piacerebbe raccogliere le storielle che scrivo per la mia rubrica “Homo Mathematicus” che tengo da una decina d’anni per la rivista Sapere https://www.saperescienza.it/, ma non so se valga la pena e nemmeno se lo farò. È così difficile rileggersi… Però certo, fra pochi andrò in pensione, e allora magari chissà?

Vista la tua esperienza decennale non possiamo non chiederti come è cambiato, secondo te, il panorama della comunicazione/divulgazione scientifica negli ultimi anni?

Quali aspetti positivi vedi? Trovi che ci siano anche degli aspetti negativi nei cambiamenti che stanno accedendo?

RN: Vedo un atteggiamento molto più positivo vera la comunicazione rispetto a una quindicina di anni fa. Contribuisce il fatto che oramai tutti vogliono essere visibili, la terza missione (come viene chiamata in modo tecnico) è un obbligo per le università e gli enti di ricerca, così come l’orientamento. Insomma, c’è un fiorire di iniziative e non solo i due o tre soliti noti che scrivono libri e vanno in tv (anche se rimango sempre del parere che qualcuno che rompa il ghiaccio deve pur esserci). E poi, grazie ai social e alla tecnologia (immaginate di seguire un podcast senza avere uno smartphone) oggi i mezzi per comunicare sono aumentati. Certo, a volte si trovano persone che, guidate tra l’altro dal loro narcisismo, hanno opinioni/modi di comunicare/profondità culturale non proprio entusiasmanti, ma questo succedeva anche prima, solo che poi non rimanevano alternative. Insomma, magari ci possono essere delle crisi di crescita, ma sicuramente la situazione della comunicazione della matematica, e più in generale della scienza, è migliorata negli ultimi anni.

Oltre alla matematica, sappiamo che tu hai una passione anche per la letteratura, in particolare per lo scrittore David Foster Wallace. Ci parli  di questa tua passione?

RN: Guarda, di Wallace ne ho parlato anche troppo, c’è un lato monomaniacale che non sempre tengo sotto controllo. Quello che volevo dire su questo autore l’ho scritto in un articolo uscito tanti anni fa in una raccolta di saggi negli Stati Uniti  (che si può trovare tradotto qui ) e direi che la chiudiamo così. Però, sì, è vero mi considero un lettore, ma non in modo classico. Sono un lettore anche lì maniacale. Se un autore o un’autrice mi piace, allora posso leggere libroni senza problemi (l’ultimo è la trilogia di fantascienza “Il problema dei tre corpi” di Liu Cixin, che nella versione italiana fa quasi 2000 pagine). Però se non entro in sintonia, mi capita di abbandonare dopo poche pagine. Quindi sì ho avuto le mie fisse come Wallace, DeLillo, Vonnegut, ma anche Perec, Calvino, P. K. Dick, Connelly, Munro, Byatt, Simenon, Chiang, Carrère, ma non ho mai letto Moravia e nemmeno Balzac o Victor Hugo. Leggo in realtà solo per passione. Non cerco di imparare nulla, o di “educarmi”. Leggo solo quello che mi piace e che non riesco letteralmente a mettere giù. E questo forse vale anche per la matematica, non riesco a lavorare su un problema che non sia divertente in qualche modo (bello da raccontare, con una bella matematica dietro, con aspetti insoliti). E non sempre capisco perché un certo autore o una certa autrice mi piaccia, e forse con Wallace è stato un po’ un esperimento (fallito) di capire queste ragioni. Solo dopo averlo letto tutto ho scoperto che si interessava di matematica! Ma forse non era questa la ragione.

Per concludere l’intervista, infine, ti chiediamo se te la senti di dare qualche consiglio ai nostri lettori più giovani che stanno pensando di intraprendere la strada di una facoltà scientifica.

RN: Se una persona giovane sta pensando di scegliere una facoltà scientifica, credo che l’unico consiglio che avrei sia quello di avere un forte spirito di curiosità e di apertura verso le cose nuove che dovrà imparare, di allenare l’elasticità mentale, e di prepararsi a lavorare in modo duro e su base quotidiana. Non serve essere un genio per fare bene in un corso di laurea scientifico, quello che serve è fare le domande giuste, rimanere sempre critici, interagendo il più possibile con i docenti (la matematica è una scienza a trasmissione orale) e, ripeto, impegnarsi molto. Ma forse il consiglio preferirei darlo a chi non sta pensando di intraprendere una facoltà scientifica, magari perché pensa di non essere portato, che sia troppo difficile, o che siano degli studi aridi. Non sto parlando di una questione di gusti, tutti gli studi se fatti bene hanno uguale dignità, ma di qualcuno o qualcuna che non pensa che la scienza faccia al caso suo. Ecco, io a questa persona vorrei dire di provare a pensare, almeno una volta, che sia il suo caso. Una laurea scientifica, e matematica su tutte, permette non solo di trovare lavori interessanti e molto richiesti, ma anche di sviluppare la propria fantasia e creatività e avere una visione del mondo unica e potente, in modo che capisco possa essere difficile da capire per uno studente delle superiori (ma che comunque si può evocare con qualche buona conferenza di orientamento). Ma che insomma, credo sia alla portata di tutti. Ecco, io alla scienza, e alla matematica in particolare, darei una possibilità.

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