Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo questo contributo di Antonio Veredice. Clicca qui per leggere un suo precedente contributo pubblicato su “Math is in the Air”.
Giant Steps: i passi da gigante di un sassofonista tra le relazioni di equivalenza
Molti interessanti lavori sono stati pubblicati sul rapporto fra Matematica e Musica; si vedano ad esempio il Journal of Mathematics and Music e i convegni Mathematics and Computation in Music .
Le righe che seguono non hanno la pretesa di dare un altro contributo generale in tal senso. Preferiamo focalizzare l’attenzione sul concetto di relazione, in senso matematico, e su alcune relazioni che possono intercorrere fra le note musicali.
Probabilmente leggendo la parola “relazione” le prime idee che vengono in mente non sono né musicali né matematiche. Pensiamo piuttosto a relazioni di amicizia, coniugali, di parentela etc … Tuttavia non siamo molto lontani dal concetto di relazione in matematica. Infatti quando parliamo della relazione di amicizia fra due persone stiamo pensando a delle coppie di amici, e in matematica una relazione è proprio questo: un insieme di coppie.
Per esempio, se consideriamo l’insieme A ={0,1,2} e la relazione “essere minore di”, espressa in maniera sintetica con il simbolo <, possiamo affermare che la relazione < nell’insieme A corrisponde all’insieme di coppie {(0,1),(0,2),(1,2)}. Si noti che, ad esempio, non appartengono all’insieme le coppie (1,1) e (2,0) perché non valgono le relazioni 1<1 e 2<0; notiamo inoltre che si tratta di coppie ordinate nel senso che la coppia (0,2) deve essere considerata diversa dalla coppia (2,0), infatti dire che 0 è in relazione con 2 è diverso da affermare che 2 è in relazione con 0, nell’esempio precedente 0<2 ma non è vero che 2<01.
In matematica il concetto di relazione è centrale: già nella scuola primaria si parla di oggetti uguali fra loro, o di una quantità che è maggiore o minore di un’altra e poi, andando avanti con gli studi, di figure geometriche equivalenti, simmetriche oppure simili, di un oggetto che appartiene o meno a un insieme, e chi arriva a studiare la matematica a livello universitario, può sentire parlare di congruenza fra numeri o di relazioni fra strutture matematiche (isomorfismo, omeomorfismo etc…).
Consideriamo in particolare le relazioni di equivalenza, si tratta di relazioni molto comuni in matematica, un esempio è la relazione di uguaglianza fra numeri. Una relazione è di equivalenza se soddisfa le proprietà: riflessiva, simmetrica e transitiva. Spieghiamo le tre proprietà esemplificandole con la relazione di uguaglianza:
- Proprietà riflessiva: ogni elemento a è in relazione con sé stesso (per ogni numero a si ha a=a)
- Proprietà simmetrica: se un elemento a è in relazione con un elemento b allora anche b è in relazione con a (per ogni numero a e ogni numero b, se a=b allora b=a).
- Proprietà transitiva: se un elemento a è in relazione con un elemento b e l’elemento b è in relazione con un elemento c, allora a è in relazione con c (scelti comunque i numeri a, b e c, se a=b e b=c , allora a=c).
Le relazioni di equivalenza compaiono anche in ambiti non numerici, ad esempio in geometria il parallelismo tra rette nel piano può essere visto come relazione fra rette che hanno la “stessa direzione”, in questo contesto ogni retta può essere considerata parallela a se stessa, quindi vale la proprietà riflessiva. Valgono anche le proprietà simmetrica (se una retta r è parallela a una retta s, allora anche s è parallela a r) e la transitiva (se r è parallela a s e s è parallela a t, allora r è parallela a t).
Non tutte le relazioni fra oggetti matematici sono relazioni di equivalenza. Ad esempio, la relazione di perpendicolarità fra rette nel piano non è una relazione di equivalenza: non vale la proprietà riflessiva (una retta non è perpendicolare a se stessa). Il fatto che non valga la proprietà riflessiva è già sufficiente per concludere che la relazione di perpendicolarità non è una relazione di equivalenza, possiamo comunque chiederci se la perpendicolarità soddisfi la proprietà simmetrica (Sì: se una retta r è perpendicolare a una retta s allora anche s è perpendicolare a r) e transitiva (No: se r è perpendicolare a s e s è perpendicolare a t, allora r è … parallela a t, non perpendicolare!). Un altro “controesempio”, cioè un’altra relazione che non è di equivalenza è la relazione fra numeri $a\leq b$ (si legge “a è minore o uguale a b”). Si tratta di una relazione riflessiva (ogni numero è minore o uguale a se stesso) e transitiva (se $a\leq b$ e $b \leq c$ allora $a\leq c$ ) ma non simmetrica (se $a\leq b$ non è detto che $b \leq a$, a meno che a e b non siano uguali).
Naturalmente quando si esce dall’ambito matematico chiedersi quali proprietà siano soddisfatte una relazione, come ad esempio l’amicizia, diventa una questione quantomeno controversa. È corretto affermare che ognuno è amico di se stesso? Dipende, se pensiamo ad alcuni comportamenti autodistruttivi forse la risposta è negativa. Sicuramente non è soddisfatta la proprietà transitiva: se A è amico di B e B è amico di C, non è detto che A sia amico di C.
Nel contesto musicale emergono in maniera molto naturale le relazioni fra le note. Partiamo dalla sequenza delle sette note della scala diatonica, in particolare consideriamo la scala di DO maggiore:
DO RE MI FA SOL LA SI
Questa sequenza si ripete uguale a se stessa creando poi quella che si chiama un’ottava successiva (si riparte dal DO e si va avanti con altre sette note che hanno gli stessi nomi ma sono più acute- cioè di altezza2 maggiore -rispetto alle precedenti, e così via).
A partire da queste note (usando anche le alterazioni diesis e bemolle di cui parleremo dopo) si costruiscono tutte le melodie che conosciamo. Ma come scegliere le note che formano una melodia?
Questa domanda ci porta al cuore del mistero creativo che è custodito da ogni compositore. E qui il paragone, per quanto azzardato, ci viene immediato con il processo creativo in matematica, anch’esso misterioso e diverso da individuo a individuo; si pensi al matematico indiano Srinivasa Ramanujan il quale affermava che le formule matematiche gli venivano trasmesse direttamente da Namagiri, la dea della sua famiglia.
Senza la pretesa di avere una chiave di accesso al mistero della creatività dei grandi compositori e dei grandi matematici, possiamo comunque affermare che le prime due note di un qualsiasi motivo, di una qualsiasi melodia, sono fra loro in una certa relazione. Per descrivere questa relazione in teoria musicale si usa il termine intervallo3, definito come differenza in altezza tra due note o come distanza fra due note. Tale distanza si calcola a partire dalla sequenza di note che abbiamo scritto precedentemente, considerando nel calcolo anche la nota di partenza e la nota di arrivo. Quindi ad esempio l’intervallo fra le note DO e SOL (della stessa ottava) è un intervallo di quinta (si contano infatti DO, RE, MI, FA SOL cioè 5 note) mentre l’intervallo far RE e MI è un intervallo di seconda. Seguendo lo stesso principio anche fra una nota e stessa intercorre un intervallo, si tratterebbe di un intervallo di prima, ma questo termine non viene usato, si parla piuttosto di unisono.
Come la relazione di amicizia e le relazioni matematiche anche un intervallo può essere pensato come un insieme di coppie: ad esempio l’intervallo di terza è un insieme di coppie di note (DO, MI), (RE,FA), (MI,SOL) etc… In generale non si tratta di una relazione riflessiva né simmetrica (se la coppia di note (A,B) forma un intervallo di terza allora la coppia (B,A) forma un intervallo di sesta), né transitiva (se la coppia di note (A,B) forma un intervallo di terza e la coppia (B,C) forma un intervallo di terza allora la coppia (A,C) forma un intervallo di quinta).
Per cercare quindi delle relazioni che abbiano buone proprietà matematiche (e vedremo dopo che si tratta di proprietà che vanno anche oltre la matematica…) invece di considerare solo intervalli, consideriamo intere scale musicali.
Per parlare di scale ci serve qualche piccola conoscenza in più sulle note. Di solito si dice che le note sono 7, in effetti non è proprio così, come si vede nei tasti del pianoforte ci sono 12 suoni che si ripetono in ogni ottava, ciò accade perché l’ottava, nel sistema temperato4, è divisa in 12 semitoni
FIGURA 1: scala di DO maggiore
I 12 semitoni sono rappresentati dai tasti bianchi e neri del pianoforte. Nell’immagine si vede che fra il do e il re c’è un tasto nero che corrisponde a un semitono, quindi tra il do e il re intercorre un tono cioè la somma di due semitoni: un semitono per passare dal tasto bianco del do (vedi figura) al successivo tasto nero (che corrisponde alla nota do diesis – si scrive do # – che può anche essere chiamata re bemolle – si scrive re b –) e un semitono per passare dal tasto nero del do diesis al successivo tasto bianco che corrisponde alla nota re. La stessa cosa accade tra il re e il mi. Tra il mi e il fa invece c’è un solo semitono, quindi non c’è un suono intermedio tra di essi come si deduce dall’assenza di tasti neri tra il tasto del mi e il tasto del fa. Tra il fa e il sol c’è un tono (come si vede dal tasto nero posto tra di essi) stessa cosa fra il sol e il la e fra il la e il si. Tra il mi e il fa invece c’è un semitono.
Per mezzo di questi dodici suoni si creano le scale musicali, ne esistono di tanti tipi a seconda della scelta degli intervalli: scale maggiori, minori, aumentate, diminuite etc…
La scala maggiore corrisponde alla sequenza di toni e semitoni che abbiamo visto:
DO-(tono)-RE-(tono)-MI-(semitono)-FA-(tono)-SOL-(tono)-LA-(tono)-SI-(semitono)-DO
Quella che abbiamo scritto è la scala maggiore a partire dal do. Se volessimo invece scrivere la scala maggiore a partire da un’altra nota, ad esempio dal SOL, allora, per conservare la stessa sequenza di toni e semitoni, dovremmo modificare alcune note, vediamo come:
SOL-(tono)-LA-(tono)-SI-(semitono)-DO-(tono)-RE-(tono)-MI-(tono)-FA#-(semitono)-SOL
Notiamo che la scala maggiore di SOL contiene un’alterazione: il FA# invece del FA, ciò avviene per mantenere la stessa alternanza di toni e semitoni, cioè gli stessi intervalli all’interno della scala. Cambiando l’alternanza di suoni e semitoni si costruiscono scale diverse dalla scala maggiore, ad esempio la scala minore naturale corrisponde alla sequenza di toni e semitoni seguente:
tono-semitono-tono-tono-semitono-tono-tono
A partire ad esempio dal LA, la sequenza di note che ne risulta è la seguente:
LA-(tono)-SI-(semitono)-DO-(tono)-RE-(tono)-MI – (semitono) -FA – (tono) – SOL- (tono)-LA
Anche le scale sono un modo per mettere in relazione le note: si può definire una relazione fra note affermando che due note sono in relazione se appartengono alla stessa scala. In questo caso la relazione è sicuramente simmetrica (ogni nota appartiene alla stessa scala di se stessa) e riflessiva (se la nota A appartiene alla stessa scala di B allora anche B appartiene alla stessa scala di A). Bisogna però fare attenzione alla relazione transitiva: consideriamo ad esempio la scala maggiore; abbiamo appena scritto la scala maggiore a partire da DO e da SOL; con le conoscenze che abbiamo possiamo affermare (guardando la prima scala che abbiamo scritto) che sia il FA sia il DO appartengono alla stessa scala maggiore, guardando la seconda scala possiamo affermare che il DO e il FA# appartengono alla stessa scala maggiore, ma possiamo dedurre da ciò che il FA e il FA# appartengono alla stessa scala maggiore? La risposta è negativa, quindi in generale le scale non creano relazioni transitive.
A partire dalle scale si costruiscono gli accordi secondo un semplice criterio: si sceglie la prima nota della scala, la terza e la quinta (e via così…). In questo modo si crea l’accordo più semplice detto anche triade. Ad esempio la triade di do maggiore consiste nelle note do, mi, sol: se suoniamo insieme queste tre note abbiamo un senso di consonanza, è ciò che si chiama armonia in musica. Naturalmente anche un accordo può essere visto come un modo di mettere le note in relazione.
A questo punto però vorrei rispondere ad alcune lecite perplessità che possono nascere in colui che sta leggendo queste righe: perché quest’ossessione nel ricercare delle relazioni riflessive simmetriche e transitive fra le note musicali? Non ci si può semplicemente godere un bel brano musicale mentre ci rilassiamo sul divano senza dover per forza stare a pensare a simmetrie e altre astrusità matematiche?
D’accordo: le perplessità sono lecite, tuttavia se ascoltiamo con attenzione qualche brano musicale, potremmo accorgerci che il problema della relazione fra le note che lo compongono non è affatto così astruso.
Figura 2: Canto Gregoriano
Pensiamo ad esempio al canto gregoriano, le sue monodie5 evocano in noi un che di mistico, ma le caratteristiche di questo canto sono in realtà legate alla sua origine pratica: “la necessità di un canto facile, eseguibile da masse di fedeli inesperti nell’arte, determina il breve ambito in cui si svolgono le melodie e la timidezza degli intervalli” [2] cioè la piccola distanza tra una nota e la successiva che rende la melodia più facilmente eseguibile da voci inesperte.
Quindi la relazione fra le note, in questo caso, è legata ad esigenze pratiche di esecuzione e proviene dalle scale greche, dette anche modi, che i teorici medioevali avevano derivato, “con vari inesattezze di nomenclatura” [2], e adattato ai loro canti religiosi. Proprio dal termine modi deriva il nome musica modale per indicare una musica in cui la melodia è basata su una scala nella quale le varie note hanno tutte la stessa “importanza” e non ci sono relazioni gerarchiche fra le varie note. La musica modale si contrappone in questo senso alla musica tonale in cui le melodie sono scritte in una certa tonalità, cioè in cui le note hanno una relazione gerarchica fra di loro: la tonica (o fondamentale), cioè la nota che dà il nome alla tonalità, ha il ruolo più importante, la terza ad esempio è anch’essa molto importante (meno della tonica ma più delle altre) perché determina se la scala è minore o maggiore e via così…. Nella nostra tradizione musicale occidentale siamo abituati a una musica tonale e forse questo è uno dei motivi per cui le melodie gregoriane che “oscillano come decorazioni che si generano da se stesse all’infinito” [2] ci appaiono così astratte e lontane.
Lasciamo ora il canto gregoriano per le armonie equilibrate e varie di una composizione tonale classica, magari di Mozart, scritta in forma sonata.
Non ci addentriamo in questa sede in una analisi della forma sonata della sua importanza nella storia della musica. Vogliamo solo evidenziare che nella sonata il concetto di tonalità è ben presente e una delle abilità del compositore consiste proprio nell’usare le sue conoscenze in fatto di teoria musicale per creare melodie orecchiabili ma non scontate, che possano traghettare in maniera naturale l’orecchio dell’ascoltatore da una tonalità all’altra.
Si crea quindi l’esigenza di cambiare tonalità e quindi, ancora una volta, di approfondire le relazioni fra le varie note per poter decidere, una volta scelta una tonalità di partenza, quali sono le altre tonalità che si possono raggiungere da essa. Una prima risposta è quella di spostarsi a tonalità vicine, con questo termine si intendono le tonalità che differiscono per poche alterazioni.
Un esempio lo abbiamo già visto: la tonalità di do maggiore (corrispondente alla scala do, re mi, fa, sol, la, si) e la tonalità di sol maggiore (corrispondente alla scala sol, la, si, do, re, mi, fa#). Queste due tonalità, le cui due toniche (rispettivamente do e sol) si trovano a una distanza di quinta, sono tonalità vicine perché differiscono per una sola alterazione: fa# al posto di fa. Andando avanti ancora di una quinta si ottiene la tonalità di re la cui scala maggiore è: re, mi, fa#, sol, la, si, do# e differisce per una alterazione dal sol maggiore (e quindi per due alterazioni dal do maggiore). Continuando con questo procedimento si costruisce quella che è la “spina dorsale” del sistema tonale, cioè il cosiddetto circolo delle quinte, rappresentato in figura 2, il quale presenta in maniera sintetica le varie tonalità e le relazioni fra di esse in termini di alterazioni (diesis e bemolle).
FIGURA 3: Circolo delle quinte
Tornando alla forma sonata, essa si apre di solito con una esposizione di due melodie che vengono chiamate temi. Di solito il primo tema è nella tonalità principale mentre il secondo tema è nella tonalità che dista una quinta dalla tonica della tonalità principale (si parla di solito della tonalità della dominante) cioè la tonalità che segue quella principale muovendosi in senso orario nel circolo delle quinte. All’esposizione segue lo sviluppo detto anche parte centrale che consiste nell’elaborazione delle idee musicali contenute nel primo tema (a volte anche nel secondo). Per sviluppare il tema una delle tecniche che si usano è proprio la modulazione cioè il cambio di tonalità che viene spesso ripetuto passando da uno all’altro dei vari centri tonali che si trovano nel circolo delle quinte. Qui la circolarità è spesso sfruttata per dare un senso compiuto al discorso musicale tornando al punto di partenza. Infine la forma sonata si chiude con la ripresa che consiste nella ripetizione del primo tema nella tonalità principale seguito dal secondo tema che viene riproposto questa volta, non più nella tonalità della dominante ma nella tonalità principale; ciò sottolinea ancora una volta come nella forma sonata il gioco delle tonalità e le relazioni tra di esse siano centrali.
Andando oltre la forma sonata il sistema della musica tonale si è ben radicato nella cultura musicale occidentale arrivando fino alla musica dei nostri giorni. Anche la musica popolare occidentale del ‘900 è fortemente intrisa del senso della tonalità. Non sono mancati però i tentativi di cercare vie alternative alla tonalità per scrivere musica: da qui il ricorso a scale orientali e anche un ritorno a tecniche compositive che richiamano la modalità. Ad esempio alcuni critici hanno ravvisato nel brano “Norvegian wood” dei Beatles una composizione di tipo modale perché basata su due scale non correlate da una logica tonale.
Inoltre il ricorso alla modalità si diffonde anche nel jazz della seconda metà del ‘900, ne è un esempio il disco del 1959 “Kind of Blues” di Miles Davis nel quale è presente il brano “So What”, una sorta di manifesto del jazz modale.
Il brano in questione è basato su un tema scritto usando le note di un’unica scala di re minore (nella fattispecie si tratta del modo dorico), questo tema si ripete per due volte uguale a se stesso e poi viene ulteriormente ripetuto ma spostato di un semitono più in alto (da re a re#). Ciò dà origine a una specie di modulazione che però ha poco a che fare con le logiche tonali (quelle del circolo delle quinte per intenderci), infatti se si vuole ragionare in termini di tonalità, il re e il re# (o mib) si trovano molto lontane nel circolo delle quinte. In questo caso è la scala, cioè il modo, che prevale; anche nello sviluppo del brano, che – come di consueto nel jazz – è affidato all’improvvisazione, i solisti seguono una scala (un modo) e non un giro armonico cioè una sequenza di accordi basati su una qualche logica tonale.
L’esempio di “So What” è paradigmatico di un movimento, presente nel jazz fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, di ricerca in campo armonico: si tentano nuove vie, sia per comporre che per improvvisare, esplorando il materiale musicale e cercando di organizzarlo secondo nuovi criteri.
E si torna nuovamente al problema delle relazioni tra note. Abbiamo detto che gli intervalli sono relazioni in generale non riflessive, non simmetriche e non transitive. C’è un intervallo che però fa eccezione e non a caso è stato sempre trattato con un certo sospetto tanto da meritarsi l’appellativo di intervallo diabolico! Questa dicitura affonda le radici nel mito: “mi contra fa est diabolus in musica” pare che abbia detto il monaco cristiano e teorico musicale Guido D’Arezzo attorno all’anno mille e nel 1700 il compositore Giuseppe Tartini scrisse una sonata per violino che è stata ribattezzata “Il trillo del diavolo” per il disinvolto ricorso all’intervallo in questione.
Qual è questo intervallo che mette in fuga i monaci e solletica le fantasie dei compositori settecenteschi? Si tratta dell’intervallo di tritono così denominato perché la distanza fra le due note è di tre toni (ovvero 6 semitoni). Ad esempio, se partiamo dal Do e ci spostiamo di 3 toni arriviamo al Fa#, oppure partendo da Si e muovendoci di tre toni arriviamo al Fa. Suonando queste due note contemporaneamente (Si, Fa) o anche in rapida successione, il nostro orecchio percepisce un senso di dissonanza e ripetendo la sequenza un po’ di volte anche una sensazione di disorientamento.
Vediamo quali proprietà matematiche ha questo intervallo così particolare. Abbiamo detto che la coppia (si, fa) costituisce un tritono, ma partendo dal fa e contando 3 toni si arriva di nuovo al si, quindi anche la coppia (fa, si) è un tritono: quindi la relazione in questo caso è simmetrica.
Estendiamo allora la nostra analisi alle scale che contengono al loro interno note che distano un tritono. Un esempio importante in tal senso è la scala esatonale, così chiamata perché contiene sei note ognuna a distanza di un tono dalla successiva. Per esempio partendo dal do abbiamo: do, re, mi, fa#, sol#, la# per poi tornare al do e ricominciare. Diamo uno sguardo alla relazione fra note indotta dall’appartenere alla stessa scala esatonale. Abbiamo già osservato che le proprietà riflessiva e simmetrica valgono per ogni scala. Nel caso della scala esatonale vale anche la proprietà transitiva infatti se una nota a e una nota b appartengono alla stessa scala esatonale ciò significa che per andare da a a b bisogna percorrere un certo numero intero di toni: chiamiamo questo numero n. Inoltre se la nota b e la nota c appartengono alla stessa scala esatonale allora significa che per passare da b a c bisogna percorrere ancora un numero intero di toni: chiamiamolo m. Quindi si può passare dalla nota a alla nota c percorrendo n+m toni, cioè un numero intero di toni, il che significa che anche a e c appartengono alla stessa scala esatonale.
Questa proprietà della scala esatonale di portare con se una relazione di equivalenza ha un’importante conseguenza che in termini matematici viene espressa dal teorema seguente:
TEOREMA Ogni relazione di equivalenza su un insieme induce una partizione sull’insieme stesso. Viceversa ogni partizione di un insieme induce su di esso una relazione di equivalenza.
Per capire il significato di questo teorema bisogna innanzitutto chiarire il significato del termine partizione. Una partizione di un insieme A è una suddivisione di tale insieme in sottoinsiemi a due a due disgiunti (cioè senza elementi in comune) che ricoprano A cioè tali che ogni elemento di A appartenga a uno di essi.
Ad esempio, l’insieme dei numeri naturali N={0,1,2,3,…} ammette una partizione formata dai sottoinsiemi dei numeri pari P={0,2,4,…} e dispari D{1,3,5,…}; infatti i due insiemi (P e D) sono fra loro disgiunti (non c’è un numero che sia pari e dispari) e ricoprono N nel senso che ogni numero naturale è pari oppure dispari.
Il teorema precedente afferma che partendo da una relazione di equivalenza su un insieme, si può ottenere una partizione cioè una suddivisione dell’insieme in sottoinsiemi, che vengono detti classi di equivalenza: ogni classe di equivalenza contiene elementi che sono in relazione fra loro. Nell’esempio precedente (pari e dispari) consideriamo relazione fra numeri: “avere lo stesso resto nella divisione per due”. Questa relazione divide l’insieme dei numeri naturali in due sottoinsiemi, due classi di equivalenza: la classe di tutti gli elementi che hanno resto 0 nella divisione per due (i numeri pari) e la classe di tutti gli elementi che hanno resto 1 nella divisione per due (i numeri dispari). Non ci sono altre possibilità.
Viceversa, una volta stabilita una partizione di un insieme, ne risulta automaticamente una relazione di equivalenza definita nel modo seguente: due elementi sono in relazione qualora appartengano allo stesso sottoinsieme della partizione. Si vede subito che la relazione così definita è riflessiva e simmetrica (ogni elemento appartiene allo stesso sottoinsieme di se stesso e se a appartiene allo stesso sottoinsieme di b, anche b appartiene allo stesso sottoinsieme di a). Ma il fatto che la partizione sia formata da sottoinsiemi disgiunti, fa sì che valga anche la relazione transitiva: se a appartiene allo stesso sottoinsieme di b (chiamiamo questo sottoinsieme S1 ) e b appartiene allo stesso sottoinsieme di c (chiamiamolo S2), allora S1 e S2 e devono per forza coincidere altrimenti si avrebbero due insiemi della partizione con un elemento (b) in comune mentre abbiamo detto che una partizione è formata da insiemi disgiunti. Si ha pertanto che ogni partizione induce una relazione di equivalenza.
Questo stretto legame fra partizioni e relazioni di equivalenza si riscontra anche nella scala esatonale che, come abbiamo visto, crea una relazione di equivalenza tra i suoi elementi e quindi, per il teorema precedente, induce una partizione nell’insieme delle note.
Infatti l’insieme delle dodici note viene diviso in due insiemi disgiunti: l’insieme delle 6 note che appartengono alla scala esatonale di do (do, re, mi, fa#, sol#, la#) e le altre 6 note, che non appartengono a tale scala, ma appartengono a un’altra scala esatonale, ad esempio alla scala di fa (fa, sol, la, si, do#, re#). In questo modo si crea una partizione in due scale esatonali. Si noti che le altre scale esatonali (quelle costruite a partire dalle altre note oltre al do e al fa) contengono le stesse note di una delle due scale precedenti.
Suddivisioni regolari di questo tipo, effettuate in base a relazioni fra note, hanno giocato un ruolo importante nella storia della musica come fonte di materiale armonico su cui costruire delle composizioni. In questo contesto sono state spesso utilizzate le relazioni generate dagli intervalli di terza. Abbiamo detto che un intervallo di terza è ad esempio quello formato dalla coppia (Do, Mi) nella scala di do maggiore. Si tratta di un intervallo denominato terza maggiore in cui fra le due note successive intercorre una distanza di due toni. Se invece tra le due note intercorre una distanza di un tono e mezzo (come, nella scala minore che abbiamo scritto prima, fra la e do) allora si parla di intervallo di terza minore.
Muovendoci per intervalli di terza minore nell’insieme delle note otteniamo quello che si chiama accordo diminuito (ad esempio a partire da re abbiamo re, fa, lab, si) e l’appartenenza allo stesso accordo diminuito crea, ancora una volta, una relazione di equivalenza fra note. Quindi le 12 note risultano suddivise in classi di equivalenza di 4 note ciascuna per un totale di 3 classi di equivalenza e quindi di 3 accordi diminuiti.
Una cosa simile accade con l’intervallo di terza maggiore: partendo ad esempio dal do si ottiene una sequenza do, mi, sol# per poi tornare al do. Anche l’appartenenza a una sequenza di questo tipo crea una relazione di equivalenza e quindi una partizione dell’insieme delle note in classi di equivalenza di 3 note ciascuna per un totale di 4 classi di equivalenza.
Ciò è illustrato nella figura 3 in cui si evidenziano, ai vertici di un triangolo equilatero, tre note che sono nella suddetta relazione di terza maggiore. Ruotando il triangolo si ottengono altre 3 terne simili, cioè le altri classi di equivalenza in cui risulta ripartito il circolo delle quinte.
FIGURA 4: Una partizione del circolo delle quinte
Le relazioni di terza (maggiore e minore) sono state esplorate in particolare da John Coltrane, già sassofonista nella formazione di Miles Davis che incise “Kind of Blue” e in seguito band leader e titolare di molte registrazioni che hanno lasciato un segno profondo nella storia del Jazz. Il sistema elaborato da Coltrane e basato sulle relazioni di terza viene di solito chiamato Coltrane Changes: letteralmente “cambi” di Coltrane, dove il termine “cambi” sta a indicare gli accordi che si susseguono nella progressione armonica di un brano musicale.
Figura 5: John Coltrane.
L’interesse di Coltrane per le relazioni di terza, che è stato anche oggetto di studi teorici [6], ha probabilmente diverse origini come riportato da Lewis Porter in [4]. Progressioni armoniche basate su tali relazioni venivano infatti già usate prima di Coltrane sia nel jazz (ad esempio nel brano “Have you met miss Jones” di Rodgers e Hart del 1937 e in “Lady Bird” di Tadd Dameron del 1939 sia da compositori classici come Carl Philipp Emanuel Bach – figlio di Johann Sebastian – e Ludwig van Beethoven.
In particolare pare che Coltrane abbia preso spunto dal libro “Thesaurus of Scales and Melodic Patterns” pubblicato da Nikolaj Slonimskij nel 1947: “leggendo l’introduzione al libro, Coltrane fu attratto da un esempio che spiegava come armonizzare un certo modello melodico toccando tonalità lontane, a distanza di terza maggiore” [3].
Da questo interesse di John Coltrane per la relazione di terza nascono numerose composizioni, una per tutte “Giant Steps” la title track dell’omonimo album del 1959 il cui titolo “allude sia alla ritrovata salute spirituale e fisica (Coltrane infatti proveniva da un periodo buio legato alla sua dipendenza dall’eroina n.d.a.) sia ai grandi salti delle modulazioni per terza” [3].
Stefano Zenni in [3] sostiene inoltre che Coltrane, in un periodo di rinascita spirituale, “colse immediatamente il significato simbolico sottointeso alla geometria delle modulazioni: il triangolo come simbolo della divinità, il cerchio quale simbolo della perfezione” (figura 4).
Al di là delle interpretazioni simboliche l’aspetto a nostro avviso notevole nel lavoro di Coltrane consiste nella creatività, nella rielaborazione personale dell’autore e nel suo lavoro di ricerca e di riflessione sulle relazioni fra le note. Il nostro punto di vista su tutto ciò non vuole essere una spiegazione della bellezza dell’arte per mezzo di relazioni numeriche ma solo un tentativo di proporne un’ulteriore descrizione usando il linguaggio della matematica.
BIBLIOGRAFIA
[1] Otto Karolyi “La grammatica della musica”. Piccola Biblioteca Einaudi. Torino,1969.
[2] Massimo Mila “Breve storia della musica”. Einaudi. Torino,1993.
[3] Stefano Zenni “I segreti del jazz”. Stampa Alternativa. 2008.
[4] Lewis Porter “Blue Train”. Minimum Fax. 2006.
[5] Giulia Maria Piacentini Cattaneo “Algebra. Un approccio algoritmico”. Zanichelli. 1996.
[6] Mazzola, G., Mannone, M., & Pang, Y. Coltrane’s Giant Steps. In Computational Music Science (pp. 181-189). Springer. 2016.
Note:
1 La definizione di relazione come insieme di coppie di elementi scelti dall’insieme A si esprime in termini matematici dicendo che una relazione è un sottoinsieme del prodotto cartesiano AxA.
2 Per quanto riguarda la definizione delle caratteristiche fondamentali del suono: altezza, timbro e intensità rimandiamo a [1].
3 In questo caso bisogna fare attenzione a non confondere il significato del termine “intervallo” in musica e in matematica; in quest’ultimo ambito l’intervallo è un sottoinsieme della retta reale.
4 Anche in questo caso, per chiarimenti sul temperamento equabile, si rimanda a [1].
5 La monodia è una linea melodica unica al contrario della polifonia che consiste nella presenza di più melodie eseguite contemporaneamente [2].
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